Il saggio dal titolo Quello che resta da fare ai poeti fu inviato da Umberto Saba alla rivista fiorentina La Voce nel febbraio 1911, ma venne respinto: in quello scritto era presente qualcosa di così insopportabile da determinare un netto rifiuto, anche da parte di una rivista letteraria d’avanguardia
Quello che resta da fare ai poeti è un testo imprescindibile per analizzare la figura e l’opera di Umberto Saba, non solo per il suo valore di manifesto della poetica del triestino, ma anche per il suo peso in riferimento al clima culturale di quel periodo nonché per il suo pregio di essere in anticipo sui tempi.
Saba esordisce nel suo scritto dicendo: “Ai poeti resta da fare la poesia onesta“, e, subito, bisogna interrogarsi su cosa significhi il termine onestà per lo scrittore. Onestà per Umberto Saba indica essenzialmente mantenersi fedeli a se stessi, alla propria visione delle cose, essere sempre legati alla propria idea di mondo anche se ciò può produrre errori, evitando però, in questo modo, le trappole della falsificazione.
Quindi, per Saba, è compito della poesia realizzare, in maniera costante, la tensione verso il proprio personale universo, cosa che porta il soggetto ad analizzarsi come uno spazio misterioso dove eventi, potenzialità, lacerazioni interiori sono intrecciati tra loro. Dentro questo spazio si svolge il lavoro del poeta: ogni sua poesia, strofa, verso devono tendere a illuminarlo e i risultati, anche se meravigliosi, sono soltanto frutto della casualità.
In Quello che resta da fare ai poeti Umberto Saba non cerca una teoria, bensì la propria cifra di originalità. Infatti Saba stesso afferma “Benché esser originali e ritrovar se stessi sieno termini equivalenti, chi […] parte non dal bisogno di riconoscersi ma da uno sfrenato desiderio dell’originalità, per cui non sa rassegnarsi, quando occorre, a dire anche quello che gli altri ànno detto; non ritroverà mai la sua vera natura, non dirà mai alcunché di inaspettato”.
Con questo pensiero il poeta sembra alludere a quelli che sono i debiti della propria poesia: infatti se nel corso dell’opera del triestino, specie nella produzione giovanile, s’incontrano calchi, risonanze poetiche esplicite, bisogna prenderli in considerazione non come un’imitazione, bensì riconoscervi l’immagine dello stesso Umberto Saba.
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È chiaro che in questo modo Umberto Saba crea le fondamenta della sua figura poetica: il poeta triestino afferma sia la sua intenzione di rifiutare la declamazione sia il suo obiettivo di una volontà che non deve sovrapporsi alle parole. In questa visione si può individuare la più alta cifra d’originalità del triestino: un modo di poetare che rigetta anche l’intenzione del poeta, cosa che per Saba conduce, inevitabilmente, alla retorica. Infatti se il poeta decide la poesia, invece che lasciarsi decidere da essa, viene meno al suo compito che, all’inizio, consiste non nello slancio bensì nella resistenza alla parola, in tal modo la poesia, non sottoposta a sollecitazioni forzate, garantisce, attraverso la sua stessa “nascita”, la propria sincerità.
La resistenza alla parola, inoltre, conferisce maggiore densità alla parola stessa, infatti, quando quest’ultima è respinta in profondità, può essere toccata da forze “oscure” che possono anche caricarla di molteplici valenze. Utilizzando le parole di Saba si può affermare che: “Il poeta deve tendere ad un tipo morale il più remoto possibile da quello del letterato di professione ed avvicinarsi invece a quello dei ricercatori di verità esteriori o interiori”.
Un programma morale, dunque, che avvicina, secondo il poeta triestino, il lavoro del poeta a quello dell’uomo di scienza e del filosofo e che comporta, in questo programma di ricerca, di fronte alla deformazione mitica e ideologica del passato o del presente, “Un’opera forse più di selezione e di rifacimento che di novissima creazione”.
Quindi in Quello che resta da fare ai poeti si trova già, quasi tutta, la poetica sabiana: la predilezione per un’arte legata ad una personale visione del mondo; l’interesse per una poesia capace di proporre introspezioni ed esami di coscienza lontani dalle falsificazioni; l’attenzione per un’attività artistica capace, anche a livello formale, di garantire la corrispondenza tra il pensato e lo scritto, entrambi all’insegna della sincerità.
La chiarezza che Saba mostra in questo scritto può lasciare spiazzati e conduce a interrogarsi, in particolare, sulle motivazioni che sono alla base della scrittura del saggio: si potrebbe ipotizzare che Quello che resta da fare ai poeti non sia un semplice manifesto poetico, ma che sia soprattutto un atto di reazione e che quindi Saba, in questo modo, abbia cercato d’illuminare la propria persona, facendo luce sulle sue intenzioni e abbia creato la propria fisionomia poetica tramite la sua “trasformazione” per la prima volta, ma non ultima, in critico di se stesso.