Stefano Cucchi: si è tenuto ieri al Centro Sociale Depistaggio l’incontro con i genitori del ragazzo ucciso il 22 ottobre 2009. “La verità giace tra quattro mura dello Stato”
“Non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte mi cercarono l’anima a forze di botte”. Nel novembre 2009 sui muri di Roma spuntarono alcuni manifesti il cui testo ricalcava una splendida canzone di Fabrizio De Andrè. Stefano Cucchi era deceduto pochi giorni prima.
Era il 22 ottobre quando una morte scandalosa sorprese il 31enne romano. Una morte di violenza e di abusi perpetrati da esponenti delle forze dell’ordine e circondata da un muro di omertà e protezione. Una morte di Stato fatta di depistaggi, coperture, omissioni che, ieri per la prima volta a Benevento, Rita e Giovanni Cucchi hanno voluto raccontare.
Con il volto severo e gli occhi tristi i genitori di Stefano hanno parlato a un pubblico assetato di verità, che in massa ha riempito la sala del Centro Sociale Autogestito Depistaggio. L’incontro, organizzato all’interno del pattinodromo di via Mustilli, è stato inserito nella due giorni intitolata “Basta omicidi di Stato. Verità per Stefano”, che ha avuto inizio il 27 marzo con la presentazione del progetto teatrale “Luci della città. Stefano Cucchi” di Pino Carbone e Francesca De Nicolais e la proiezione del documentario “Morti di Stato”, e si è conclusa ieri con il concerto dei Mascarimirì.
“Un ragazzo entrato sano e libero dentro quattro mura dello Stato, quelle mura che dovrebbero tutelare i cittadini e dove Stefano, invece, è stato massacrato e ucciso di botte”. Queste le parole proferite da Rita Cucchi che, con la sua voce dura e commossa, ha immobilizzato gli astanti e compiuto un nuovo tentativo, l’ennesimo, di scalfire l’indifferenza che attanaglia l’opinione pubblica. Seduta tra il marito Giovanni e il regista partenopeo Pino Carbone, che ha allestito lo spettacolo dedicato a Stefano Cucchi presso il Mulino Pacifico di Benevento per la stagione teatrale Obiettivo T, la signora Rita ha ripercorso la vicenda di suo figlio.
Una storia drammatica, che ha avuto inizio la notte tra il 15 e 16 ottobre 2009, nei pressi del Parco degli Acquedotti, a Roma in zona Cinecittà.“Stefano era un ragazzo normalissimo di trentun anni. Aveva avuto problemi di tossicodipendenza in passato, ma aveva deciso di cominciare un percorso in comunità per disintossicarsi. Ne era uscito con molta dedizione. Voleva ricominciare da zero. Poi tutto è precipitato”.
Esordisce così Rita Cucchi, che continua: “Quella sera Stefano, dopo la palestra, aveva cenato a casa nostra. Poi era uscito per incontrare un amico. All’una di notte suonò il citofono: “Mamma, apri!”. Era Stefano. Stava bene e con lui c’erano tre uomini in borghese e due in divisa. I Carabinieri effettuarono la perquisizione in maniera frettolosa. Stettero una mezz’ora solo nella stanza di mio figlio. Chiesero se c’erano altre stanze da vedere. “Potete controllare ovunque”, disse mio marito. Andarono via senza trovare nulla. Poi chiesi: “Dobbiamo chiamare l’avvocato?”, e loro: “Non si preoccupi signora, già fatto. Domani suo figlio torna a casa ai domiciliari”.
Quella notte Stefano era stato trovato in possesso di venti grammi di hashish e di farmaci antiepilettici, che inizialmente i militari confusero con pasticche di ecstasy. Il giorno dopo, quando Giovanni Cucchi si recò nel tribunale per l’udienza di convalida dell’arresto, Stefano era diverso. “Doveva essere successo qualcosa – afferma la signora Cucchi- . Aveva il viso gonfio e non riusciva a camminare. Quella fu l’ultima volta che Giovanni vide nostro figlio”.
Il ragazzo venne trasferito in carcere, a Regina Coeli, e da lì al Fatebenefratelli per un primo accertamento dove si riscontrano varie lesioni. Il giorno seguente venne nuovamente portato all’ospedale sull’Isola Tiberina e poi trasportato al reparto di detenzione del Sandro Pertini.
Alla famiglia più volte fu negata la possibilità di visitare Stefano. Il reparto di detenzione del Pertini è soggetto al regime carcerario, e per questo è necessario un’autorizzazione specifica. “Ma quando arrivò il permesso era troppo tardi. Cinque giorni dopo, il 22 ottobre, il corpo di Stefano giaceva senza vita sul lettino dell’obitorio. Mio figlio indossava gli stessi indumenti della sera dell’arresto. Mai cambiato. Mai lavato. Niente”, denuncia Rita Cucchi.
Per la morte di Stefano sono stati condannati in primo grado per omicidio colposo sei medici dell’ospedale Sandro Pertini. Sono stati assolti, invece, i tre agenti penitenziari accusati di aver picchiato il ragazzo in custodia cautelare e gli infermieri imputati per non aver prestato assistenza a Cucchi, mentre era ricoverato in ospedale.
“Vogliamo capire chi ha massacrato nostro figlio, lasciandolo poi morire brutalmente in ospedale. Non abbiamo ricevuto nemmeno una telefonata anonima”, sentenzia la signora Cucchi. “Stefano è una delle tante vittime di un apparato di repressione e detenzione che punisce i più deboli”, le fa eco il marito Giovanni.
“Andremo avanti perché di fronte al corpo martoriato di nostro figlio abbiamo giurato di non arrenderci. Chiediamo che la verità, affossata tra quattro mura dello Stato, venga alla luce. Sembrerà strano ma noi continuiamo a credere nelle Istituzioni. Pensiamo però che all’interno di esse, esista una manciata di semplici cittadini italiani che, ingaggiati dallo Stato, non sanno fare il loro mestiere e per questo è giusto isolarli”, conclude Rita Cucchi, mentre i suoi occhi si riempiono di lacrime.