Quando il ricorso alla giustizia diventa vessatorio e, quindi, illegale? La questione “stalking giudiziario”
A cura dell’ Avv. Luca Monaco del Foro di Salerno
Può capitare di essere destinatari di reiterate, quanto ingiustificate e infondate, azioni legali, in sede civile, penale o amministrativa, da parte di un ex coniuge rancoroso, di un vicino di casa particolarmente litigioso, di un collega invidioso, di un fratello bramoso di appropriarsi dell’intero patrimonio ereditario dei genitori defunti. In questi casi, si potrebbe essere vittime del cosiddetto “stalking giudiziario”.
Quantunque, allo stato, la casistica giurisprudenziale sul punto sia ancora esigua, è prevedibile, a parere di chi scrive, che l’abitudine sempre più diffusa di ricorrere allo strumento giudiziario in una prospettiva vessatoria o vendicativa, determinerà a medio – breve termine, un considerevole ampliamento dell’alveo di operatività di questa peculiare, subdola, eppure particolarmente invasiva, forma di persecuzione, ex art. 612 bis c.p.; una forma di illegalità perpetrata attraverso una finta domanda di legalità. Analizziamone, pertanto, in punto di diritto, gli aspetti più rilevanti per delinearne la configurabilità giuridica e capire in concreto quando esso ricorra.
Orbene, lo stalking giudiziario, la cui recente genesi trova riscontro nella ricerca dottrinaria e nell’ermeneutica giurisprudenziale, è una particolare forma di atti persecutori, le cui azioni moleste si sostanziano appunto nella reiterazione di pretese risarcitorie in sede civile, ricorsi amministrativi e persino in denunce-querela prive di fondamento ma strumentali esclusivamente a porre il destinatario in uno stato di angoscia o di prostrazione e a vessarlo, determinando nello stesso uno degli eventi alternativi previsti dalla fattispecie incriminatrice di atti persecutori (stalking), ex art. 612 bis c.p..
E’ lapalissiano, infatti, che la ricezione di atti ingiuntivi, querele, ricorsi di qualsivoglia natura giuridica, possa ingenerare nel destinatario preoccupazione, angoscia, timore, prostrazione o ansia, costringendolo, peraltro e non di rado, anche a cospicue spese per sostenere in giudizio le proprie tesi difensive.
In proposito, la Suprema Corte di Cassazione, Sez. V, con una recente sentenza, la n. 3831/2017, ha implicitamente riconosciuto la configurabilità del reato di atti persecutori, perpetrati attraverso un utilizzo degenerato dello strumento giudiziario a fini vessatori. Il Collegio degli Ermellini, infatti, nel denegare fondamento alle censure mosse dal ricorrente, che disconosceva la configurabilità dell’art. 612 bis c.p., affermata in sede cautelare dal Tribunale del Riesame, pur evidenziando che le condotte vessatorie allo stesso addebitate non fossero soltanto di natura giudiziaria, riconosceva al contempo la natura persecutoria e potenzialmente integrante l’ipotesi di reato contestata, demandando al giudice del merito la valutazione della loro concreta sussumibilità: “la valutazione di gravità indiziaria, non è affermata soltanto sulla proposizione reiterata di denunce ed esposti (il c.d. “stalking giudiziario” contestato dal ricorrente) – la cui concreta valutazione va rimessa all’apprezzamento del giudice di merito concernente i profili fattuali della vicenda – bensì su condotte ben più pregnanti”.
Giova, peraltro, definire i confini di sussumibilità delle citate condotte persecutorie, perseguite mediante lo strumento giudiziario, individuandone i presupposti indefettibili. Orbene, quando il ricorso alla “giustizia” diventa vessatorio e, quindi, illegale al punto da rendere configurabile l’ipotesi delittuosa di cui al 612 bis c.p.?
Innanzitutto le domande risarcitorie o le denunce devono essere reiterate: il delitto di atti persecutori, infatti, è sempre integrato da una pluralità di condotte (secondo un orientamento della Corte di Cassazione, potrebbero essere sufficienti anche due sole condotte moleste).
In secondo luogo, le pretese fatte valere in giudizio devono essere palesemente infondate e strumentali. Ciò significa che l’eventuale infondatezza delle stesse o le conseguenti pronunce sfavorevoli per l’attore, il ricorrente o il querelante non determinano, sic et simpliciter, la configurabilità del reato di atti persecutori, dovendo le stesse essere ictu oculi destituite di fondamento e finalizzate a nuocere la serenità del convenuto o del denunciato.
Infine, un problema interpretativo, a parere di chi scrive, si potrebbe porre con riguardo al ricorso strumentale al procedimento penale. Ciò in quanto una denuncia-querela dolosamente non veritiera è già suscettibile di configurare il più grave delitto di calunnia, ex art. 368 c.p., di talché si potrebbe porre un problema di concorrenza formale tra le due diverse fattispecie.
Ne discende, tuttavia, ad avviso di chi scrive, che certamente il ricorso reiterato alla denuncia – querela possa integrare il reato di cui all’art. 612 bis c.p. allorquando, però, la palese infondatezza delle accuse non concerna l’aspetto fattuale del reato denunciato ma la sua rilevanza penale, sempre a condizione che emerga la strumentalità della denuncia a una ingiustificata vessazione del denunciato