Il secondo numero dello speciale su Alberto Sordi (potete leggerne la prima parte QUI), propone un’analisi della “commedia all’italiana”, attraverso la scelta di alcuni film, in cui sarà confermata la sua bipolarità (quindi dell’italiano), e si manifesterà in maniera più forte l’evoluzione nella recitazione e del “personaggio”. L’ingresso di Sordi nei memorabili anni ’60 del cinema italiano, avviene con La grande guerra (Mario Monicelli, 1959), un film importantissimo per due motivi principali: è un lavoro che entra nella produzione alta, ottenendo un grande successo di critica e di pubblico, ed inaugura il genere della cosiddetta “commedia all’italiana”.
Come si può riconoscere la commedia all’italiana, dunque? Si tratta del “genere” che riesce, con precisione e sagacia, a osservare la realtà italiana e a criticarla: la scardina, la svela, con un atteggiamento “leggero”, attivando quel meccanismo del “comico” che rende gli attori popolari e vicini allo spettatore; diverte e lascia un sorriso amaro, portando alla luce pregi e difetti dell’italiano postbellico.
La guerra al cinema, torna ad essere, infatti, uno dei temi ricorrenti, tralasciato invece negli anni ’50. La grande guerra e Tutti a casa (Luigi Comencini, 1960) presentano Sordi in veste di fante prima e di sottotenente dopo. È un fifone, incapace di gestire i soldati e di far eseguire gli ordini; è una “maschera” che vuol far credere di amare la patria, di accettare le logiche della guerra, ma crolla di fronte alle difficoltà e alla paura di morire (forse perché la morte l’ha vista con i suoi occhi). Ciò che emerge in questi film è l’arretratezza e l’inadeguatezza dell’esercito italiano, l’assurdità dei comandi e della vita dei soldati. Il finale, tragico, mostra Sordi e Gassman uniti nella consapevolezza di essere stati traditi dalla propria patria, uniti nel fallimento.
Credere in qualcosa e fallire, desiderare un riscatto sociale e corrompersi: queste sono le caratteristiche del Sordi degli anni ’60 e della commedia in generale. Il bisogno di conquistare una posizione, di ottenere qualcosa di “materiale”, rappresentano l’esigenza di aderire al boom economico, fino ad annullare personalità e dignità. In Il boom (Vittorio De Sica, 1963), Sordi è un marito che con pochi mezzi accetta di cedere il suo occhio, in cambio di una cospicua somma di denaro, subendo un intervento per donarlo ad un uomo facoltoso che l’ha perduto. Sordi si sottomette al mercato, “spende in più di quello che guadagna“, per mantenere la moglie nelle abitudini borghesi, nascondendole i debiti. Chiede così un prestito al riccone, alle cui spalle lavora una moglie insensibile, pronta ad approfittare di un uomo fragile e disperato per saziare un suo “capriccio” (ridare l’occhio al marito). È la logica “del dare per avere”, mostrando fin da questi anni (più forte negli anni ’70), l’animo “svenduto” dell’italiano, non perché creda culturalmente nel valore del denaro, ma perché ha in corpo il desiderio di adeguarsi ai tempi, di fare il salto sociale, mostrare ciò che gli altri vogliono vedere.
Con Il vigile (Luigi Zampa, 1961) Sordi è un padre di famiglia disoccupato, con una moglie premurosa e materna, diversa dalle altre mogli che lo affiancano, che spesso rappresentano la vera rovina economica e psicologica dell’italiano medio. Il figlio di Sordi, sebbene piccolissimo, si assume la responsabilità di guadagnarsi il pane, sviluppando un spirito di adattamento ai tempi e una maturità dal sapore adulto. I bambini sono le vittime di quest’Italia, eppure si mostrano i veri eroi, che cresciuti troppo in fretta, spesso rispondono alle delusioni dei padri interpretando i grandi della famiglia (basti pensare anche a I bambini ci guardano o a Ladri di biciclette di Vittorio De Sica). Il film mostra il percorso di un uomo che, aiutato dal figlio, si rivolge direttamente al Potere per chiedere un posto di lavoro, prostrandosi fino all’insopportabile. Condurre il suo lavoro onestamente e senza fare differenze, punendo anche il sindaco, lo porterà a rispondere davanti al giudice. Convinto di seguire la strada giusta, ossia la Giustizia, non avrà paura di affrontare la battaglia. I potenti però organizzano un ricatto psicologico, mettendo Sordi di fronte alla sofferta scelta di soccombere, e fallire ancora una volta.
Nello stesso anno è il protagonista in Una vita difficile (Dino Risi, 1961), in cui è un giornalista partigiano sposato con una donna borghese dai valori e dalle abitudini prima rassicuranti e poi devastanti. Alberto Sordi è di nuovo un personaggio in crisi. Combattuto tra i suoi ideali rivoluzionari e l’attaccamento al denaro da parte della moglie. Pur promettendo di raggiungere il suo obiettivo, dovrà accettare di annullarsi ancora una volta. L’Italia è dunque il paese del popolo che si arrende? Con Alberto Sordi lo è. In una scena centrale del film Sordi, ubriaco e disperato, si rivolge alla moglie con queste parole: “Mi bruci il romanzo perché non hai fiducia in me, e poi mi mandi a scuola come un bambino deficiente! è vero questo Elena?! … […] adesso che mi hanno bocciato, io sono contento! e siccome il romanzo io ce l’ho tutto qui in testa, io lo riscrivo paro paro com’era prima, a costo di lavorarci due anni!!” e la moglie risponde: “E di che mangiamo in questi due anni?!” e Sordi: “A pane e acqua come ho fatto io in carcere e se non ti va ritorna da tua madre, brutta vigliacca che sei stata la rovina della mia vita!”. A questo dialogo segue la loro separazione momentanea e Sordi si mostrerà presto incapace di vivere senza la moglie accanto. Forse non è all’altezza di rifiutare la vita borghese? O forse non avrà la forza e non troverà i mezzi per raggiungere le sue soddisfazioni? Nella scena finale è diventato il servetto di un potente, accontentando la moglie e guadagnando un posto nella società.
L’inetto è il ritratto dell’uomo nell’Italia degli anni ’60. Alberto Sordi ne è l’espressione più “familiare” e condivisa. Con Il medico della mutua (Luigi Zampa, 1968), scritto da Sergio Amidei, avviene il suo riscatto come personaggio cinematografico, in quanto non fallisce nei suoi obiettivi: è l’esempio di un italiano ben inserito nel contraddittorio sistema italiano, ora in grado di costruire una carriera di medico invidiabile, manipolato da una madre autoritaria e corteggiando la moglie di un medico famoso e moribondo, per ereditare poi la sua lunga lista di pazienti.
La denuncia ora arriva fino al sistema ingarbugliato della sanità italiana, mostrando come un uomo qualunque, apparentemente educato e onesto, possa man mano costruire intorno ad esso un impero, con pensieri meditati e scaltri, ma celati dietro una finta educazione e amore verso l’altro. Siamo ormai alla fine della commedia all’italiana (1959-1968), e l’italiano in scena non è più tanto simpatico. Alberto Sordi è quell’attore che, come raccontano i nostri padri, risulta “antipatico”, “fastidioso”: come mai? La risposta è chiara in Il medico della mutua, dove il personaggio sfonda lo schermo, ed è così reale, così vero, che quasi non è accettabile. Per lo spettatore, entrare all’interno delle mura di uno studio medico, ascoltare i ragionamenti più intimi del personaggio, fino a comprendere cosa vuole raggiungere, è come un pugno nello stomaco e ne prende le distanze.
Gli anni ’60 sono il momento in cui Albertone ci dimostra quanto tutto ciò che ha metabolizzato negli anni precedenti, sia servito per fare della commedia all’italiana la sua conquista artistica. La recitazione è realistica, sempre più vera, dalle infinite sfumature, più statica (forse perché più sicuro), chiara e tangibile, talmente forte da provare amore e odio verso i suoi personaggi, nello stesso modo in cui accadrebbe nella vita. Alberto Sordi non è stato un “grande” attore, ma “immenso”.
Non perdete la prossima ed ultima puntata dello speciale su Alberto Sordi, sempre e solo su Zerottonove.