Vinicio Capossela e Il Paese dei Coppoloni, storia e mito si fondono e si confrontano alla luce di un presente che sembra aver smarrito il senso di appartenenza con la tradizione e i valori del passato
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“Da dove venite? A chi appartenete? Cosa andate cercando?”, queste le domande che accompagnano l’intero viaggio del viandante-narratore ne Il Paese dei Coppoloni, un percorso senza tempo nella terra dei padri, luogo mitico di incontri densi di meraviglia. Un passato popolato da personaggi dai nomi fantasiosi, ma dalle esperienze che profumano di antiche realtà perdute. Tante piccole storie che fanno la Storia, del romanzo e dell’Irpinia che rappresentano. Da Coppolicchio “lo sciamano” e Mandarino “pascitore di uomini”, a Cazzariegghio e la Totara, un universo di inverosimili presenze e di innegabili verità.
“Vado accattando musiche e musicanti per le terre dei padri nel paese dell’Eco che mi hanno detto risuonare di suoni”, risponde il viandante ad ogni nuovo incontro. Un’Odissea in chiave moderna, un ritorno ad Itaca possibile, una rivalutazione del passato irpino che sfida apertamente il presente.
Un passato talmente interiorizzato attraverso i racconti dei suoi genitori, che sembra rivivere realisticamente in ogni personaggio, racconto, scontro, aneddoto, descrizione. Lo stesso Vinicio Capossela, durante la presentazione del libro tenutasi nel corso del Festival Salerno Letteratura a Salerno, si è fatto portavoce di questi ricordi, e soprattutto di queste emozioni, difficili da cogliere nella frenesia dell’oblio contemporaneo.
Chi cerca il danaro, il danaro lo affamerà. I soldi sono buoni, ma noi non siamo buoni. I debiti aggravano debiti, e si vendono i debiti e non il grano. È con l’interesse che è nato il mercimonio. Vogliono fare nascere i soldi dai soldi, come dalla terra nasce il grano per la trebbia. Vogliono far lavorare i soldi e non le braccia, e col Contributo si sono lasciate vuote le terre, e incolte.
Nell’era dei selfie, della mercificazione, della crisi economica, la salvaguardia dell’antica bellezza è l’unico modo per non recidere del tutto il filo che ci lega alle nostre origini, ai sacrifici dei nostri avi, alla fatica e al sudore della terra che ha ospitato il nostro corpo e la nostra anima. Perché quella che emerge dalle parole di Capossela è soprattutto anima, anima irpina, leggendaria, mitizzata nel ricordo e fissata per sempre nel racconto.
Il racconto è qualcosa che ci sottrae al tempo che consuma, e ci consegna all’unica dimensione di immortalità che conosciamo, quella del mito. Questa dimensione mitica della lingua l’ho cercata e trovata nella forma del canto epico.
Il linguaggio usato dai personaggi è infatti quello tipico della tradizione orale del tempo: il dialetto, con tanto di arcaismi, neologismi, e trasposizioni letterali della saggezza popolare.
Il dialetto nostro, a saperlo praticare, è bello pure se difficile… è una lingua che viene dall’osco e poi dai latini, e si è mescolata con il greco, l’ispanico, il francese, l’inglese… che tanti nel tempo hanno imposto la lingua e le tasse. È diventata un pane di forno, che diversi semi lo gonfiano, però tiene un sapore che altre non hanno, e già ad arrivare al paese di fronte il parlare sa diversamente, e quasi non ci si intende più… sarà stata forse la natura arroccata dei paesi che vigilano ognuno sull’altro, e per raggiungerli bisogna molto camminare come io ancora mi prodigo a fare.
Nel corso della narrazione la lingua rappresenta un simbolo di appartenenza ad un luogo, ma soprattutto d’identità delle persone che lo abitano. “Anche l’architettura della parte storica del paese di Calitri riflette la condizione che emana quella comunità: le case sono costruite una a ridosso dell’altra, quello che è il pavimento per una, è il tetto per l’altra, come se le esistenze non fossero singole, ma si spalleggiassero una con l’altra.”, ha dichiarato durante la conferenza. Insomma, la popolazione aveva un modo tutto suo di difendersi dall’esterno e proteggersi dall’interno. Per non perdersi negli inarrestabili cambiamenti della società “buciarda”, negli inganni della televisione, che con i suoi metodi subdoli “rende tutti soli e addomesticati.”
Nel minuscolo si nasconde il gigantesco, ma questo scompare davanti alle dittature dell’attualità.
L’orologio con le lancette ferme alle otto meno venti non è messo a caso sulla copertina del romanzo. Esso rappresenta
L’ora in cui finì un mondo, quello della civiltà contadina, che morì il 23 novembre 1980, col tremamento della terra. All’epoca quella terra non era neanche sulle cartine geografiche e quel tragico evento con cui la terra, infastidita, si è ribellata togliendosi di dosso l’opera dell’uomo, ha segnato un passaggio, una frattura tra un tempo e un altro che è venuto dopo.
Oggi siamo profughi nelle nostre stesse terre, vaghiamo alla ricerca di una stabilità e di un rifugio che non risiede più nei nostri luoghi d’origine, spesso rinnegati e svalutati senza alcun senso di riconoscimento. Il Paese dei Coppoloni si pone a difesa di un tempo immobile in cui tradizione e rispetto erano sentimenti legati a valori comuni e imprescindibili, e che latitano pericolosamente nell’ingratitudine del presente.