di Danilo Iammancino
Il calcio è uno sport bellissimo. Sin da bambino ho speso le mie energie nell’ammirare le gesta di giocatori quali Franco Baresi, Paolo Maldini, Marco Van Basten e Diego Armando Maradona. Ed è proprio partendo da questi esempi che vorrei sollevare uno spunto di riflessione in questa triste domenica di pallone.
Girovagando tra le mie letture sono rimasto quasi affascinato da un tema di un ragazzo che esprimeva in un modo così “innocente” i suoi dubbi circa il rapporto tra calcio e violenza: “ Il calcio è uno sport bellissimo. Più e più volte rimango affascinato da un passaggio smarcante o dal modo in cui un giocatore addomestica la palla, serpeggiando tra gli avversari. Certamente sono anche tifoso di una squadra di calcio, mi esalto per i suoi successi e mi dispero per le sue sconfitte. Penso anche che andare allo stadio, partecipare ai cori, che non sempre sono ingiuriosi o volgari, sia un’esperienza bellissima. Lo sapete, per esempio, che i tifosi della mia squadra spesso intonano una bellissima canzone dialettale quando aspettano l’entrata in campo dei giocatori? È proprio perché amo tutto ciò che non riesco a capire le persone che trasformano questa festa dello sport in una rissa senza scopo”.
Bisognerebbe partire da questo punto, così purificato ed intriso di semplicità per riuscire a costruire una nuova “concezione” del calcio. Si perché oggi, il mondo del pallone ha più che mai bisogno di porsi alcune domande.
Basandomi sulla mia delimitata conoscenza dell’argomento, posso tranquillamente rimembrare svariati episodi di violenza e di razzismo negli stadi. Dalla morte di Vincenzo Spagnuolo e Sergio Ercolano, passando per voli di motorini dalle curve e svariati scontri tra tifoserie. Pagini tristi della storia di questo sport che hanno visto come protagonista indiscusso la figura del tifoso. Hanno scritto libri, svolto inchieste e alimentato varie visioni del tutto rispettabili. Si il tifoso, ma di che cosa stiamo realmente parlando? Quando parliamo di “tifosi” parliamo di persone, quando parliamo di “persone” parliamo di società civile.
Il movimento Ultrà in Italia nasce come diretta emanazione di due realtà sociali sorte alla fine degli anni sessanta: “l’hooliganismo anglosassone” e “il movimento della contestazione giovanile” (ma non è questa la sede adatta né il pezzo giusto per avventurarci in analisi storiche n.d.r. ) quello che ci preme sottolineare è che gli impianti sportivi sono, nell’accezione comune, ormai diventati un territorio franco ove gruppi di persone più o meno organizzate ritengono di poter compiere atti di violenza gratuita (senza timore di dover pagare eccessive conseguenze). Si tratta di atti che vengono avvertiti come finalizzati a ribadire un senso di forza e dominio sia nei confronti degli altri tifosi sia di quanti cercano di mantenere l’evento agonistico nell’ambito della normalità. Uno “sfogatoio” dove poter far esplodere tutta la supremazia che un salernitano può avere su un napoletano o dove un livornese può avere su un pisano o dove meglio ancora un leccese può avere con un barese. Già e qui ci colleghiamo ad un secondo punto le divisioni.
La famosa frase di Massimo d’Azeglio «Abbiamo fatto l’Italia, ora bisogna fare gli italiani» è in un certo senso ancora d’attualità.
L’Italia è da sempre un “Bel Paese” lacerato dalle divisioni. Si perché un paese diviso è un paese molto più facile da governare. Gli odi e le tensioni che sistematicamente contribuiamo a versare nella società civile alimentano tensioni e divisioni che non ci porteranno mai ad una vera ed imponente riscossa civile. Senza avventurarci in considerazioni politiche che ci allontanerebbero inesorabilmente dal nocciolo della questione, il calcio nella sua accezione negativa di violenza e razzismo negli stadi non fa altro che accentuare queste tematiche.
Le modalità con cui questa violenza (sia essa fisica che psicologica) si manifesta induce a questo punto a ritenere ogni partita, sostenuta da un elevato numero di tifosi, un evento ad elevato rischio d’incidenti soprattutto in partite ritenute ad alto rischio di scontri. Tali episodi non sono generalmente prevedibili e rischiano, tra l’altro, di innescare reazioni a catena di rapidissima evoluzione, non sempre controllabili dall’apparato di sicurezza predisposto all’interno e fuori dagli stadi. Se quindi un padre deve rischiare nel portare in questa “Guerra” sua moglie e suo figlio allo stadio, allora ben venga la decisione del Prefetto e quindi ben venga spalancare gli impianti alle famiglie ed ai tifosi che vanno alla partita per gustarsi una serena domenica di sport.
Se noi a tutto questo ci arrendiamo, abbandonandoci alla furia di chi vuole trasformare lo stadio in terra di guerriglia e minacce, allora rischiamo seriamente di trasformare Salernitana-Nocerina come la Caporetto della società civile.
Si perché il danno mediatico è forte ed è alla stessa stregua degli episodi di Genoa-Siena dello scorso 22 aprile. (La prima pagina su un quotidiano nazionale come Repubblica nella foto in basso è testimonianza di tutto questo).
In Italia, spesso e volentieri, siamo tutti bravi a formulare giudizi la maggior parte di essi critici e che hanno il solo scopo di contribuire ad alimentare polemiche infinite che non porteranno mai a nessun risultato concreto. Ci tengo a sottolineare che le mie parole vanno a tutela della vera tifoseria e dei veri tifosi, che costantemente con ardore e passione seguono le vicissitudini della propria squadra del cuore sacrificando a volte affetti e portafogli. L’obiettivo, in questa triste domenica per il calcio italiano, è soltanto quello di stimolare un momento di riflessione nei gentili lettori che hanno avuto la pazienza di leggermi. Il tutto condito da una curiosità: lo scorso 22 aprile, mentre alcuni “tifosi” in Genoa-Siena costrinsero quasi i giocatori a consegnare le maglie facendo vergognare l’Italia, in Premier League quelli del Wolwerhampton applaudivano i propri giocatori nonostante il ko contro il City sia costato la retrocessione. Segno che un cambiamento è possibile.