“E qualcosa rimane fra le pagine chiare e le pagine scure.” Un inizio che presuppone una fine, così De Gregori fa cominciare il testo di Rimmel, uno dei capolavori della musica italiana, uscito per la prima volta nel 1975 all’interno dell’omonimo album. Luogo, tempo e attori non vengono specificati, ma si intuisce chiaramente che si tratta dell’epilogo di una storia d’amore, un chiaro/scuro di ricordi che riaffiorano nella loro duplice natura, obliandosi in un presente che non può più contare sull’esistenza e la potenza dei sentimenti. Un vero e proprio macigno, piazzato come incipit appositamente per catturare e coinvolgere l’ascoltatore, dire tanto e non raccontare nulla.
Ma cosa è successo nella parte che precede la congiunzione? È il testo a svelarcelo strofa dopo strofa, in un crescendo di rivelazioni che sciolgono ogni dubbio. Un nome da cancellare, alibi e ragioni che si confondono, un destino tradito, spezzato nel suo divenire.
“Chi mi ha fatto le carte mi ha chiamato vincente, ma uno zingaro è un trucco”
Al protagonista era stato predetto un futuro sereno e ricco d’amore, ma la realtà dei fatti ha smentito ogni pronostico, invadendo e annientando ogni possibile felicità. In questa parte del brano viene resa nota la causa scatenante della rottura: l’inganno, perpetrato ai danni dell’uomo, da parte di una donna scaltra, insensibile, pronta a barare per i suoi tristi scopi. Quattro assi di un unico colore nelle sue mani, a rendere la sconfitta dell’amato scontata e spietata, laddove inconsapevolezza e fiducia, lo hanno reso cieco di fronte all’eventualità di un comportamento sleale. Così il rimmel, classico trucco usato dalle donne per dare risalto alle ciglia, qui simboleggia l’uso di una maschera, la tragica finzione di chi vive i rapporti umani come un palcoscenico sul quale esibire falsità, crudeltà, menefreghismo, insensatezza.
Il modo in cui viene comunicata la fine della relazione è infatti impietoso, tagliente, senza scampo: la donna domanda all’uomo se ancora conserva la foto in cui lei sorrideva indifferente, senza nemmeno guardarlo. Lui risponde un “sì” a metà tra l’incomprensione e l’incredulità, a cui segue la frase brutale: “è tutto quel che hai di me”. Lui replica ripetendo le sue stesse parole, allibito, ferito, smarrito. L’imbroglio è stato svelato. Immediata scatta la consapevolezza da parte del protagonista di essere stato frodato, la rabbia si fa spazio tra la delusione e il rimpianto, tra il futuro profetizzato e un presente spiacevole, da dover affrontare con la forza di chi crolla senza mostrare cedimenti. La reazione è altrettanto diretta: “Ora le tue labbra puoi spedirle a un indirizzo nuovo e la mia faccia sovrapporla a quella di chissà chi altro” A tal punto si spinge la voglia di mostrarsi imperturbabile e distaccato, che alla fine del testo, auspica addirittura la nascita di un’amicizia con colei che lo ha tradito. Difficile stabilire quanto di verosimile si nasconda in questa ultima affermazione, se si tratti di orgoglio o di un disperato tentativo di dissimulare il dolore.
La trama del componimento, inoltre, si riferisce a una circostanza autobiografica della vita dell’autore, che incontrò una ragazza di nome Patrizia, proprio nel giorno a cui fa riferimento la foto del testo, quando riuscì a salvarla dal tentato rapimento della pelliccia che indossava: “Ed il vento passava sul tuo collo di pelliccia e sulla tua persona”. Dopo essersi conosciuti ed uniti in un intenso legame, lei lo lasciò perché innamorata di Nino Salerno. Anche l’episodio delle carte è reale, e De Gregori, in un’intervista a M. Romano lo etichetta così: “[…] non è bello che uno ti dica quello che diventerai, credere allo zingaro forse è mancanza di giovinezza, del coraggio di dire: vaffanculo adesso io esco e chissà cosa succede.” Un invito a tenere gli occhi ben aperti, a diffidare, non solo di chi vende apertamente (seppur in modo disonesto) la propria arte divinatoria, ma soprattutto degli insospettabili impostori che si fanno spazio nella nostra vita e nei nostri cuori con maschere artefatte e subdoli raggiri.