La raccomandazione non integra il reato di abuso d’ufficio (Corte di Cassazione, Sezione 6, sentenza n. 18077/2018). E’ quanto affermato dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza in commento
A cura dell’ Avv. Luca Monaco
La vicenda giudiziaria traeva la sua genesi dalla condotta del Direttore Generale di un Ente pubblico, imputato per il reato di abuso d’ufficio in concorso con un funzionario dell’ufficio del personale dell’Ente medesimo, che aveva emanato una nota finalizzata, secondo l’accusa, a neutralizzare un atto del Commissario Straordinario, che gli aveva ridotto lo stipendio, ricavandone, pertanto, un ingiusto profitto economico.
Secondo l’impianto accusatorio, infatti, tale comportamento aveva provocato l’adozione di una determinazione contraria al provvedimento del Commissario, vanificando gli effetti intenzionalmente deflattivi per la spesa pubblica; ciò, peraltro, evitando di astenersi dalla sua funzione di Pubblico Ufficiale in presenza di un proprio interesse. L’imputato, attinto dalla misura cautelare della sospensione da un pubblico ufficio o servizio, proponeva appello cautelare, rigettato, tuttavia, dal Tribunale del riesame territorialmente competente.
Proponeva, dunque, tramite il proprio difensore, ricorso per cassazione deducendo, tra gli altri motivi di gravame, la violazione della legge penale e processuale con riguardo alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza per il contestato reato di abuso d’ufficio. In particolare, il ricorrente censurava la mancata valutazione, da parte dei Giudici cautelari, della natura giuridica della “nota” oggetto di contestazione che, secondo la tesi difensiva, avrebbe avuto natura meramente accompagnatoria e non ordinatoria o altrimenti vincolante per il funzionario ricevente.
La Suprema Corte, nel dirimere la questione proposta, richiamava pregressi orientamenti della giurisprudenza di legittimità sulla scorta dei quali la sussistenza dell’abusività criminosa del comportamento del pubblico ufficiale è indefettibilmente connessa a un rapporto di causa-effetto tra l’atto emanato da quest’ultimo e l’esercizio delle sue funzioni. Invero, secondo i Giudici di legittimità, il delitto di abuso d’ufficio, ex art. 323 c.p., necessita, ai fini della sua configurabilità, che l’esercizio del potere del pubblico ufficiale non esuli dalle finalità connesse alla funzione esercitata; viceversa, infatti, non sussisterebbe alcun esercizio di potere, tantomeno un abuso.
Giova, infine, rappresentare che la Suprema Corte, nel corroborare la propria determinazione ermeneutica, richiamava, altresì, uno speculare principio, già ius receptum per la Corte medesima, secondo il quale anche la cosiddetta “raccomandazione”, non accompagnata da ulteriori comportamenti coattivi o altrimenti determinanti sulla condotta abusiva del pubblico ufficiale, è insuscettibile di costituire un concorso morale nel reato di abuso di ufficio; ciò in quanto il destinatario della stessa può liberamente decidere di accettare o meno tale “segnalazione” alla stregua della propria discrezionalità (Cass. Pen., Sez. 6, sent. n. 35661/2005).
Orbene, nel caso di specie, sulla scorta delle suesposte considerazioni, la Corte di Cassazione riteneva che la condotta dell’imputato, inserendosi, peraltro, come condotta concorrente rispetto a quella del funzionario, non integrerebbe l’ipotesi delittuosa contestata in quanto, nel trasmettere al responsabile dell’ufficio del personale il provvedimento commissariale che gli riduceva lo stipendio, si limitava a rappresentare la sussistenza di ragioni di diritto a proprio favore, individuate in un articolo del CCNL, per corroborare e giustificare la permanenza del precedente trattamento retributivo in deroga a quanto disposto dal Commissario.
Orbene, tale nota, peraltro avulsa da qualsivoglia altro comportamento attivo del mittente, lungi dal costituire un’attività inerente alla funzione esercitata, era insuscettibile di determinare vincoli in capo al destinatario e di integrare (o di concorrere a integrare) la fattispecie oggettiva del reato di abuso d’ufficio di cui all’ art. 323 c.p.. Pertanto, la Corte, con riguardo al caso specifico sottoposto al suo esame, annullava senza rinvio l’ordinanza del Tribunale del riesame e quella del Gip, cristallizzando le sopra esposte argomentazioni e i relativi principi di diritto