“Carissimo padre, di recente mi hai domandato perché mai sostengo di avere paura di te”: per fornire una risposta a questo interrogativo Franz Kafka ridiscese, con la Lettera al padre, nell’abisso della propria infanzia e del suo senso di inadeguatezza
Era il 3 giugno del 1924 quando Franz Kafka morì all’età di quarant’anni; ne avrebbe compiuti quarantuno esattamente un mese dopo. Cinque anni prima, nel 1919, aveva scritto e chiuso in un cassetto quella celebre Lettera al padre che non sarebbe mai giunta tra le mani del temuto destinatario.
Se ci si accosta alla nota epistola dopo aver letto capolavori kafkiani come Il Processo o Il Castello, è difficile non notare nel breve scritto autobiografico l’eco di temi magnificamente oggettivati in quelle opere: ci si rende conto che in Kafka l’esperienza soggettiva, il dolore vissuto sulla propria pelle, giunge ai picchi dell’universalità passando attraverso la penna. Il contatto diretto col dolore, purificato dai residui di soggettività, diventa conoscenza consapevole della condizione umana in generale.
Sebbene del lavoro di un artista conti, per molti, principalmente il risultato finale, resta comunque particolarmente interessante scoprire i retroscena che sono alla base di opere di indiscutibile profondità e, nel caso di Kafka, anche di grande complessità.
Un primo dato, che emerge chiaramente dalla Lettera al padre, è il seguente: lo scrittore praghese fu il singolare risultato di un incontro/scontro multiplo di personalità. Il primo di essi fu quello che gli diede la vita, tra le nature tanto differenti della madre, Julie Löwy, donna docile, sempre pronta a proteggere i figli ma mai a contrariare il marito, e di quel padre terribile, sempre pronto a minacciare e a rinfacciare.
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Nella Lettera Kafka si definisce, quasi con rammarico, “un Löwy con un certo fondo kafkiano che però non è mosso dalla volontà kafkiana di vita, di affari e di scoperta”.
Fu, però, soprattutto dallo scontro del giovane Franz con Hermann, il vero Kafka, che emerse il ben noto artista, con tutte le sue insicurezze e le dichiarate debolezze.
Un secondo dato, di importanza capitale, è la sorprendente ripartizione delle responsabilità tra Franz e il padre: “eravamo così diversi e, in questa diversità, così pericolosi l’uno per l’altro”. In alcun modo Kafka, nelle pagine della sua lettera, condanna completamente il genitore, sa che quello con il padre è stato un rapporto di tormento reciproco e non unidirezionale; lo scrittore avrebbe potuto spogliarsi di ogni colpa ma dall’inizio alla fine dell’opera, incredibilmente, è proprio la colpa a farla da padrona nel suo animo. Scivola in tutti gli scritti di Kafka questo senso di colpa congenito che sembra quasi essere nato con l’uomo, striscia ovunque anche tra le righe della Lettera al padre e l’unica motivazione plausibile pare essere il semplice e nudo essere così come si è.
“Tu eri per me la misura di tutte le cose”: dice Kafka del padre, ed è chiaro che, in alcun modo, egli, lo scrittore, pensa di poter mai anche solo avvicinarsi a quella misura, a confronto della quale tutto appare infimo, tutto sembra sbagliato. La figura di Hermann si riveste dei caratteri del tiranno, mai messo in discussione: ogni sua volontà, anche incoerente, è un ordine, ogni condanna da lui emessa ha la magica capacità di creare la colpa. “In certo qual modo si era puniti prima ancora di sapere che si era fatto qualcosa di male”; di fronte a queste parole non si può non pensare alla condanna di K. ne Il Processo, una condanna che conduce il protagonista alla morte senza che egli riesca mai a capire quale sia la colpa. E la stessa idea di condanna, inoppugnabile quanto misteriosa, si ha ne Il Castello, dove il luogo delle decisioni fatali si rivela irraggiungibile oltre che incomprensibile nella sua organizzazione.
Se è vero che Franz Kafka si dimostra convinto del fatto che il fondo ultimo della sua personalità sarebbe stato lo stesso anche supponendo un comportamento meno duro da parte del padre, è però altrettanto innegabile che la vita dello scrittore fu, fino alla morte, un continuo ed estenuante processo, con Hermann Kafka come giudice e la sua arbitraria volontà come legge.