La Corte Costituzionale è intervenuta risolvendo la questione riguardante l’interpretazione dei prelevamenti bancari per i lavoratori autonomi (professionisti e simili)
[ads2] Finalmente, dopo molte pronunce delle Commissioni Tributarie Regionali e dopo altre decisioni della Giurisprudenza, la Corte Costituzionale è intervenuta risolvendo la questione riguardante l’interpretazione dei prelevamenti bancari per i lavoratori autonomi (professionisti e simili).
Si tratta di una storica Sentenza, la n. 228 del 6 ottobre 2014, in quanto fino a questo momento l’Agenzia delle Entrate (A.E.) poteva considerare come ricavi o compensi del professionista i prelevamenti che, anche per minimi importi, quest’ultimo non fosse stato in grado di giustificare (con fatture o altri documenti a sostegno).
Per chiarire: se in sostanza un contribuente non era in grado di provare il motivo del prelievo, questo veniva automaticamente addebitato al reddito e quindi sottoposto a tassazione. E’ una pura presunzione lesiva dei diritti costituzionali che però, oggi, con questa nuova interpretazione della legge non vige più. Non si possono allora più considerare compensi o ricavi i prelievi effettuati dal proprio conto corrente, soprattutto per i liberi professionisti. Quest’ultimi – come spiega l’Emerita Corte – non hanno un’organizzazione di tipo imprenditoriale, con l’obbligo di tenuta delle scritture contabili e quant’altro, quindi non sono né qualificati né strutturati come società e pertanto non devono sopportare tali addebiti fiscali e sanzionatori.
V’è da dire tuttavia che, anche per le imprese, il Fisco ha ingiustamente applicato il cd. principio di cassa (costi/ricavi) anziché quello di effettiva distribuzione degli utili (correttamente “dell’imputazione ai soci del reddito delle società di capitali effettivamente percepito come dividendo”), nel senso che anche per società a conduzione familiare l’Ente accertatore finiva per considerare ricavi tutto ciò che non fosse riportato nelle scritture contabili oppure provato in altro modo e, in più, senza fare distinzione fra società semplici (s.s., s.a.s., s.n.c. ecc.) e di capitali (s.r.l., s.a.a., s.p.a. ecc.). Solo per le seconde il fisco dovrebbe essere meno intransigente.
E’ ovvio che – e la stessa Corte lo sottolinea – per i professionisti bisogna altresì tener conto del tenore di vita e del volume d’affari per cui i piccoli prelievi monetari non possono in alcun modo essere valutati come ricavi o compensi, perché in pratica non è detto che un prelievo venga reinvestito nella stessa attività professionale e che per giunta produca pure un profitto! A tal proposito, la Consulta ha parlato di “fisiologica promiscuità delle entrate e delle spese professionali e personali“.
Tuttavia obiezioni sono state sollevate in merito alla questione del riciclaggio di danaro ma sul punto la stessa Corte Cost., in soldoni, ha risposto che il cittadino non può uscirne pregiudicato sulla base di una presunzione totalmente arbitraria e quindi la normativa del riciclaggio di denaro si applica sì, ma con le dovute eccezioni tenendo presente cioè reddito e ricavi. Il riciclaggio per ingenti importi, peraltro, può configurare reati che non sono perciò di competenza dell’A.E. ma della Procura della Repubblica.
Orbene, gli Ecc.mi Giudici della Corte Costituzionale, in particolare, hanno stabilito: “…la presunzione è lesiva del principio di ragionevolezza nonché della capacità contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito”, con conseguente dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale, quindi con abrogazione, della parte della normativa di riferimento in contrasto con gli articoli 3,24, 53 e 111 della Costituzione Italiana.