Olive Kitteridge, ovvero: scrivere bene per raccontare bene
L’anteprima che ha lasciato il segno questo primo settembre 2014 alla 71° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia è la miniserie di Lisa Cholodenko per la HBO, Olive Kitteridge, tratta dall’omonimo romanzo di Elizabeth Strout. Si tratta di quattro puntate confezionate ad arte, tanto da costituire, insieme e ciascuna a suo modo, un piccolo film. Il segreto è nella scrittura di una sceneggiatura nella quale ogni elemento è ben concertato con gli altri e l’uso della linea temporale, non cronologica, rende tutto più interessante e appetibile per un pubblico, quello di oggi, che si annoia con facilità.
Non è la prima volta che la HBO distribuisce una serie che focalizza la sua attenzione sul personaggio e in particolare sugli accadimenti della vita di questo rispetto ai suoi tormenti interiori. Tormenti che però possiamo comprendere solo in relazione a ciò che il personaggio dice e compie, senza mai cadere fino in infondo nella sua psiche. Un altro grande successo della rete che lanciò Sex and the City e il più recente True Detective che ha sconvolto le comuni regole del genere poliziesco per dare vita a una storia che pone l’attenzione in particolar modo sulla relazione fra i protagonisti e i loro tormenti e così è anche Olive Kitteridge.
Non si tratta semplicemente una serie, definirla tale sarebbe riduttivo, è una storia. La storia di una vita, la storia di una donna; la storia di un amore e delle sue conseguenze, una storia di famiglia. Dunque un racconto di vita dal quale è impossibile non restare coinvolti. Si parla del quotidiano, del quotidiano di una donna glaciale, forte, ma anche molto sensibile, convinta delle sue idee e proprio per questa sua durezza, spesso in conflitto col marito, uno splendido Richard Jenkins che vive nel suo personaggio con una tale naturalezza da restare immediatamente rapiti, e con il figlio. La protagonista è Frances McDormand, grande attrice di teatro, cinema e televisione, premio oscar nel 1997 per l’interpretazione in Fargo e protagonista (per citarne uno) di America Oggi di Robert Altman.
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La McDormand ha ricevuto, quest’oggi in sala grande, il premio Personal Tribute to Visionary Award inaugurato proprio quest’anno.
Nella seconda metà della serie compare anche Bill Murray nelle vesti di un personaggio di svolta. Ancora una volta Murray mostra una recitazione calibrata e molto essenziale, fatta di poche espressioni, pochi gesti, ma quanto basta per farcelo amare dal primo momento in cui compare in scena.
Olive Kitteridge è un ulteriore esempio di quanto stia cambiando il modo di fare cinema, ma soprattutto il modo di fare televisione e di come, ormai, distinguere le due cose sembra difficile. Non si tratta di più di stabilire se siamo di fronte a una serie, un lungometraggio, un corto o altro, ma di saper restare coinvolti nella storia. Evidentemente siamo in una società che necessità di storie più profonde, di racconti più lunghi; una società che vuole stabilire un rapporto di continuità con i personaggi che ama, al punto da sentirne la mancanza quando la storia è conclusa. Tutto questo è possibile con serie come questa, come True Detective e altre che associano la qualità al buon cinema e alla buona serialità e per la prima volta, in quest’epoca le due cose non si escludono a vicenda.