Museo dello Sbarco a Salerno, dal 24 al 27 gennaio, sceglie di raccontare la Shoah attraverso una performance che unisce recitazione, musica elettronica e coreutica
[ads1]Ci si avvia all’interno del Museo dello Sbarco. È una serata fredda. Il gruppo di spettatori delle 20.15, l’ultimo appuntamento dopo quello delle 19.00, cammina inconsapevole del reale contenuto dell’evento. Una donna, dal pubblico, comincia a parlare ad alta voce:”Io non ci voglio venire con voi!“
Poi un uomo, un’altra donna, un altro uomo … qualcosa prende forma: è la performance.
Lo spettatore è succhiato all’interno del recitativo, coinvolto in maniera sensoriale, e ammutolito, segue il percorso verso l’ignoto. Una sorta d’identificazione tra il dovere di raccontare, tramandare e “rappresentare” il dramma della Shoah, ma anche il bisogno di mutare il linguaggio.
Sull’Olocausto è stato detto molto: libri, arte, cinema, teatro. La memoria si tramanda anno per anno, quasi meccanicamente. Lo spettatore al Museo dello Sbarco si trova in bilico tra verità e finzione, nel senso di ricostruzione artistica in funzione della trasmissione della memoria. “Parlare” di memoria del tragico destino degli ebrei, comporta forse farne esperienza, per memorizzare e assorbire, anche solo in maniera suggestiva, il contenuto sconcertante dell’efferatezza commessa.
Dopo questo breve ma importante incontro empatico tra spettatore e performer, ci si incammina verso l’interno: questo passaggio è scandito dal Preludio di Bach accompagnato dalla profonda voce di Eleonora Claps, in un canto ancestrale e addolorato. Il preludio, pezzo posto all’inizio di una composizione, è anche in questo caso l’incipit dei momenti musicali successivi, il tema musicale dei titoli di testa di un film.
La musica elettronica è assunta come nuovo linguaggio per riprodurre il suono dell’orrore, della paura, della morte. Musica elaborazione degli strumenti di derivazione classica presenti in scena, sebbene nascosti da teli bianchi da cui vediamo solo le sagome inquietanti, ottenuta sfruttando la naturale fonte sonora di: viola (Giuseppe Giuliano), violoncello, (Gaetano Santucci), clarinetto (Giovanni Liguori) e percussioni (Lucio Miele).
Il cammino all’interno di un luogo stretto e buio acquista tridimensionalità, quindi qualcosa di esperibile, attraverso la potenza suggestiva dell’onda sonora elettronica che si muove e si amplifica durante il movimento dello spettatore, ma anche attraverso l’intervento improvviso del coro Kamaraton Cantus di Camerota, nascosto da un telo nero.
“Meditate che questo è stato!“, “Bambini!“, “Hanno preso il mio corpo!“, “Se questo è un uomo“: alcune tra le parole (tratte da William Shakespeare e Primo Levi) che s’incrociano in un contrappunto verbale (curato da José Elia e Paola Eugenia Ferrari), confuse e cogitate, per percuotere gli animi del pubblico silenzioso e preso.
Parole che sono ciò che rimane, quasi “slogan”, che si associano alla Shoah, ma che al Museo dello Sbarco e dalle labbra del coro prendono consistenza, perché si muovono nel nostro luogo, lo stesso dove tocchiamo con mano il suono/dolore. In una marcia funebre il Kamaraton Cantus attraversa la scena con un canto che è un pianto collettivo. Il coro ha proprio la funzione greca di collettività, che deve farsi carico di una sofferenza con un valore universale. In questo momento alla performance si aggiunge una figura meravigliosa: una giovane ebrea che non riesce a raccontare la brutalità che ha visto e che continua a vivere, perché l’Olocausto è l’indicibile, l’inguardabile, l’incomprensibile … è disperazione e pianto, è un vomito di dolore che non ha la forza di uscire. Tutto questo prende forma attraverso il corpo e la recitazione di Eleonora Claps, che si aggrappa allo spettatore, indebolita dal trauma.
[ads1]Gli attori Matteo Amaturo, Vittorio Di Fluri, Carlo Orilia, Cinzia Ugatti e Mimma Virtuoso sono interamente immedesimati nella parte, riuscendo a commuovere lo spettatore, che man mano diventa attore della tragedia. Il valzer trasforma i performers in marionette, che accompagnano il pubblico su uno dei vagoni che ha realmente contenuto gli ebrei in un viaggio da Roma. All’interno paglia e buio improvviso: sono cinque minuti in cui la musica elettronica riproduce il tormentoso rumore del treno sulle rotaie verso l’indefinito, in cui percepiamo anche suoni che fanno pensare ai bisogni primari che erano costretti a fare in quel dannato vagone buio.
Un’esperienza forte e coraggiosa, che segue tre passaggi emotivi: sensazione di ansia nel momento in cui si rimane chiusi lì dentro, torturati da una “musica” improvvisa; una tentata immedesimazione in quel tipo di esperienza; straniamento, bisogno di prendere le distanze da tutto ciò.
Si esce quasi scioccati dal vagone. Una performance che ingloba il fruitore nell’esperienza sensoriale abolendo la distinzione tra arte e vita, tra rappresentazione e storia; perché la Shoah non si potrà comprendere e riscattare mai, ma si deve continuare a tramandare memoria di quanto è stato; forse si può provare a simulare un’esperienza, prima con il corpo e poi con la mente, per poi avere la dignità di parlarne.
Produttiva collaborazione tra Museo dello Sbarco, Conservatorio Martucci di Salerno e il regista Andrea Carraro, in una performance con la musicazione di Giancarlo Turaccio, che ha curato l’elettronica insieme a Pantaleo Cammarano e Gaetano Sanutucci.
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