Autoproclamarsi uomo felice prima della morte, agli occhi della saggezza greca, era considerata cosa azzardata; col tempo il rapporto tra felicità e morte non poteva che complicarsi
[ads2] Nel primo libro delle sue Storie Erodoto racconta di un celebre incontro, quello tra il saggio Solone, legislatore ateniese, e Creso, re di Sardi. Interrogato su chi fosse l’uomo più felice, Solone, contrariamente alle aspettative del re, convinto che il saggio avrebbe indicato lui stesso, Creso, come uomo felice e a nessuno paragonabile, inizia a elencare una serie di personaggi comuni, che all’apparenza non hanno alcunché di straordinario.
Perché il re Creso, ricchissimo e beato, non è considerato da Solone uomo felice? La risposta della saggezza greca è semplice e concisa: perché è ancora in vita. Solone, infatti, spiega al re che non si può dire felice una vita che non si sia ancora conclusa; solo riguardo a qualcosa che sia giunto alla sua fine si può dare un giudizio. Con quello che nella lingua latina suona come un gioco di parole, si può dire che soltanto il “perfectum”, il concluso, possa essere definito perfetto.
E, dopo tutto, l’idea di uomo felice come uomo giunto al/alla fine, pervade anche l’etica di Aristotele; l’eudaimonia, la felicità fine ultimo della vita, si consegue mediante il raggiungimento di molteplici fini minori, ordinati in vista di quello più grande. Anche in questo caso, a dar senso all’esistenza umana è la fine del processo.
Questa idea tutta greca di vita non si può dire che trovi un terreno fertile nella nostra epoca.
Max Weber, nel testo della conferenza La scienza come professione, del 1917, sottolineò un aspetto tutt’altro che rassicurante della società della tecnica, quella società che, insomma, è già giunta al cosiddetto disincanto del mondo, confidando nella piena esplicabilità di tutto quell’esistente che di magico o inconoscibile non ha più nulla.
Secondo Weber la prospettiva dell’accrescimento, potenzialmente infinito, di conoscenza e beni, fa apparire all’uomo del suo (e del nostro) tempo la conclusione della vita come un evento ingiustificabile: la morte non ha alcun senso perché, senza di essa, l’uomo avrebbe potuto continuare il suo sviluppo illimitato. Il dramma, infatti, si pone nel contrasto tra l’infinito del progresso e la finitezza umana: l’uomo singolo vorrebbe con tutte le sue forze seguire fino in fondo quel cammino al quale vede destinata l’umanità nel suo complesso, non si accontenta più di essere una parte del gigantesco meccanismo al quale ha ridotto l’esistenza, egli, ritenendo che l’unico uomo felice sia un uomo immortale, vorrebbe identificarsi con quel meccanismo nella sua totalità.
Inutile dire che un simile desiderio è inevitabilmente reso vano dall’irrompere della morte, un punto sempre più forzato alla fine di una narrazione, della cui completezza soltanto una saggezza come quella greca poteva godere.
Adriana Cavarero, nel suo Tu che mi guardi, tu che mi racconti, si chiede: “Il percorso di una vita si lascia alla fine guardare come un disegno che ha senso?” La domanda sorge come riflessione su una storia ripresa da Karen Blixen, autrice de La mia Africa; la scrittrice danese riferisce una storia narratale da bambina nella quale un uomo, svegliato da un forte rumore nel cuore della notte, si precipita fuori casa e si affanna a correre su e giù, guidato soltanto dal frastuono udito. La mattina dopo, guardando dalla finestra, si rende conto che i passi della notte prima avevano dato origine, in maniera del tutto inconsapevole, al disegno di una cicogna.
Solo a disegno concluso si può scorgere una forma, mentre si tracciano i segni si può, al massimo, cercare di direzionare i propri passi.
Si ritorna quindi a Solone e alla sua consapevolezza di un fato, che lui poteva chiamare divinità e che rende impossibile definire un uomo felice prima che la vita sia osservabile nella sua interezza, corredata quindi del suo ultimo atto.