Oggi, 27 Gennaio, è la data in cui si rinnova il dolore in tanti che non possono ignorare la Giornata della Memoria.
Si è già detto molto, e scritto ancor di più, delle vicende che videro protagonisti giovani Ebrei, tedeschi oppositori, donne, bambini, famiglie intere costrette alla rovina e un (purtroppo) abbastanza esiguo numero di ex-deportati. Perciò, anziché celebrare dicendovi ciò che si è soliti dire in questi casi, con tono mesto e consolatorio, voglio piuttosto affidarvi una nuova memoria, la mia – una giovane giornalista che, pur non sapendone ancora abbastanza sull’argomento, ha vissuto un’esperienza. Un’esperienza davvero toccante, che non potrà mai cancellare dai suoi ricordi.
Dovete sapere che, tra gli undici e i dodici anni, ho fatto un viaggio in Austria. Questo viaggio l’avevo vinto tramite un concorso di disegno, tema: la memoria della Shoah. Detto così potrebbe sembrare addirittura qualcosa di positivo. Ma dovevate vedere attraverso i miei occhi, sentire attraverso le mie orecchie, quando per la prima volta mi recai a Mauthausen nel suo tristemente noto campo di concentramento. Fu quasi come vivere, insieme agli ex-deportati con i quali condividevo la visita, gli stessi indicibili orrori di tanto tempo fa.
Innanzitutto non vidi quasi nulla del paese, solo la strada che conduceva verso il luogo della morte. Mentre procedevamo verso l’oscuro campo di sterminio di Mauthausen-Gusen, che vide prigionieri illustri come Carlo e Luigi Boscardin, Filippo Acciarini (coraggioso direttore de l’ “Avanti”), Aldo Carpi (autore dell’unico Diario che uscirà da quella fornace) e Ferdinand Pascal Lenzi d’Alessandro, mentre appunto ci dirigevamo laggiù, un ex-deportato raccontò ai presenti di come, una volta fuggito dal campo di concentramento insieme a pochi altri, trovò lungo la strada un pollaio momentaneamente abbandonato. La fame, comprensibilmente, spinse i fuggiaschi smagriti a divorare un intero gallo, salvo poi (per fortuna) vomitarlo, altrimenti sarebbero tutti morti d’indigestione.
Con questo racconto poco piacevole ancora nelle orecchie, mi venne quindi mostrata l’entrata dell’enorme area di sterminio (l’“inferno dei viventi”, mi parve di pensare). La cosa più orribile di tutte fu vedere la cancellata di un inquietante color di piombo fuso, mista ad un odore mefitico che proveniva dalle tombe poste all’ingresso, e poi – mi ricordo – lessi una scritta sopra il cancello, purtroppo per me incomprensibile, ma che per me suonò pari ad una crudele beffa. I muri di recinzione all’interno del cancello – una sorta di spazio antistante, al quale seguiva poi una lunga strada che conduceva negli spazi di “lavoro” veri e propri – erano ripieni di targhe e fregi commemorativi, lettere ormai consumate dal tempo, immagini di coloro che furono in quel luogo e non ne uscirono mai più. Molti i fiori freschi – segno che frequentemente tante famiglie tornavano lì – e un’atmosfera opaca di antico disastro. I racconti degli ex-deportati proseguivano mentre percorrevamo la strada che portava ai dormitori, e numerose statue lungo il ciottolato integravano la vista degli orribili spazi sottostanti, che ebbi modo di visitare più da vicino: la “Scala della morte”, il “Muro dei paracadutisti” ed altre atroci invenzioni dei nazisti (camere a gas, forni crematori). Camminando nei luoghi del dolore, si avvertiva proprio questo: un profondissimo, acuto dolore che invadeva ogni angolo, ogni muro, ogni granello di polvere – e che risuonava ancora delle urla disperate di chi non fu così fortunato da salvarsi, delle ombre di bambini che non c’erano più. Il dolore si vedeva chiaramente in quei piccoli letti a castello (un letto che non bastava per due persone, veniva occupato anche da sei o sette prigionieri ammassati alla meglio), in quelle finestre perfettamente quadrate e chiuse, in quelle vie interne che erano state coperte di sangue, sudore, escrementi e lacrime. C’era quasi un odore di lacrime, dovunque mi girassi: morte, disperazione, follia, e intanto potevo vedere dall’interno le camere a gas dall’effetto micidiale, mi venivano mostrati i forni coi quali cremavano i deportati vivi. Immaginarli è una cosa, ma vi assicuro che vederli non fa lo stesso effetto. Sulla Scala della morte i deportati venivano costretti ad issare enormi massi, ma la scala era gigantesca per cui spesso, sfiniti, morivano schiacciati dal peso che solo trenta o quaranta di loro potevano reggere. Ovunque corone di fiori, e più avanti, in una sala, dove un video-documentario sempre acceso spiegava in che modo alcune volte gli Ebrei venivano divorati dagli scarafaggi, quando, allo stremo delle forze, giacevano morenti e inermi; perché laggiù non esisteva la pulizia, ma c’erano tantissimi scarafaggi e topi che facevano sparire ogni minimo residuo di avanzi alimentari.
Questi sono i più vividi ricordi che ho di quel viaggio. Se adesso pensate che sarebbe orribile andare a visitare quei luoghi anche a trent’anni, immaginate cosa può essere stato per una dodicenne. E pensate quali brividi mi percorrano adesso, al solo pensiero di parlarne di nuovo, ripercorrendo mentalmente quelle strade. A Mauthausen ho visto anche i laboratori dove i medici nazisti seviziavano con esperimenti le creature umane di cui li rifornivano; e mi ricordo che c’era una scritta incisa sul muro, in una delle anticamere, ancora leggibile: “Se Dio esiste, mi deve chiedere scusa”. Ma no, non Dio, bensì noi, folli crudeli e lucide macchine di odio, noi, crudeli vittime della nostra stessa follia, noi, assassini seriali degli innocenti, dobbiamo chiedere scusa, e per l’eternità, di ciò che abbiamo provocato. Dobbiamo scolpirceli nei ricordi, quei visi, dobbiamo sentirle, quelle urla, dobbiamo piangere ancora se leggiamo Anna Frank. Non è giusto, non è piacevole, ma è ciò che noi mostri moderni abbiamo fatto, e che non dobbiamo permettere si verifichi mai più.
L’ “inferno dei viventi”: l’augurio che posso fare alla società contemporanea, in questa giornata così fondamentale per la memoria collettiva mondiale, è di costruire un paradiso, la prossima volta. E di non dimenticare come tante vite innocenti, brutalmente strappate al loro destino, esigono ancora vendetta urlando impronunciabili accuse dai nomi scolpiti sulle loro lapidi.