Jane Austen è la scrittrice che, per i suoi quarantun anni di vita, non si mosse quasi mai dalla provincia in cui nacque ma che, nonostante ciò, seppe guadagnarsi un punto di vista sulla società dell’epoca molto più elevato rispetto a quello dei suoi contemporanei
Virginia Woolf, in Una stanza tutta per sé, affermava che uno dei grandi problemi avuti, nei secoli passati, dalle donne che avevano deciso di dedicarsi alla letteratura, era stato l’assenza di un linguaggio che, in qualche modo, calzasse loro a pennello. Una grande eccezione su questo versante, però, riteneva fosse costituita da Jane Austen: quello che le scrittrici del passato si trovarono di fronte, sosteneva la Woolf, “Era un linguaggio inadatto all’uso femminile. Charlotte Brontë, nonostante il suo splendido talento per la prosa, barcollava e cadeva, con quell’arma ingombrante fra le mani. George Eliot commise con essa delle atrocità indescrivibili. Jane Austen le dette un’occhiata, ne rise, e s’inventò uno stile perfettamente naturale ed elegante, adeguato alle sue esigenze, e non se ne distaccò mai”.
Se si ignorasse il fatto che Jane Austen sia nata nel lontano 1775 e si sfogliassero le pagine di Orgoglio e Pregiudizio privi di questo dato, si sarebbe tentati di attribuire quest’opera ad una scrittrice il cui punto di osservazione sia ben lontano nel tempo rispetto al contesto socio-culturale descritto. Tra la Austen e la sua epoca sembrerebbero frapporsi almeno un paio di secoli; a dare questa singolare impressione è quel riso che sembra risuonare a ogni pagina e che investe buona parte delle convenzioni sociali del tempo, quell’ironia capace di elevarsi al di sopra della propria condizione di singolo individuo, invischiato nelle vicissitudini di un determinato periodo storico: perché non ci dimentichiamo che Jane Austen era una donna del XVIII secolo, una donna che decide di scrivere in un periodo in cui al suo sesso era a stento riconosciuta una forma di razionalità, per cui, ogni forma di aspirazione intellettuale, doveva essere (in)opportunamente celata.
Orgoglio e pregiudizio, attraverso lo sguardo della protagonista Elizabeth, e, all’occorrenza, per mezzo dei commenti di suo padre Mr Bennet, riesce a ridicolizzare le esasperazioni di una società che sembrò innalzare l’ipocrisia a propria regola suprema.
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Il matrimonio a tutti i costi per le proprie cinque figlie è l’unico interesse di Mrs Bennet e, sin dalle prime battute, il romanzo mostra la centralità di questo tema: “È cosa ormai risaputa che a uno scapolo in possesso di un vistoso patrimonio manchi soltanto una moglie. Questa verità è così radicata nella mente della maggior parte delle famiglie che, quando un giovane scapolo viene a far parte del vicinato – prima ancora di avere il più lontano sentore di quelli che possono essere i suoi sentimenti in proposito – è subito considerato come legittima proprietà di una o dell’altra delle loro figlie”.
I discorsi delle sorelle minori di Elizabeth, Chaterine e Lydia, non vanno al di là di un vuoto civettare, incentrato sull’ufficiale di turno.
Al contrario di ciò che si potrebbe ipotizzare, a primo impatto, leggendo il solo titolo del romanzo e le prime pagine, orgoglio e pregiudizio non sono prerogativa dei personaggi più discutibili dell’opera della Austen; sono la stessa protagonista e l’uomo che gradualmente si innamorerà di lei che dovranno percorrere la via che li porterà lontani dall’orgoglio, che trasforma ogni azione altrui in un affronto, e dal pregiudizio, che si accontenta di pochi incompleti elementi per classificare l’altro.
A un certo punto della sua storia Elizabeth dovrà prendere atto della durezza e avventatezza dei propri giudizi, proprio lei alla quale la Austen fa pronunciare parole rivolte all’amata sorella Jane, parole che, si può dire, le si rivolteranno contro: “Sono poche le persone che io amo per davvero e ancora meno quelle delle quali io penso bene. Più conosco il mondo, più ne sono disgustata”.
Il disgusto del mondo, quando è causato da eccessivo orgoglio, genera il pregiudizio e questo Jane Austen lo dimostrerà chiaramente attraverso un procedimento che ricorda da vicino quell’ironia tragica, per la quale l’eroe cade vittima delle sue stesse parole, in quanto, credendo di parlare di un altro, in realtà parla di se stesso.