Racconti, testimonianze, documenti, diari, lettere, biografie, autobiografie. Già dagli anni ’20 del secolo scorso questi scritti sono stati utili, e in certi casi indispensabili, nell’ambito della ricerca psicosociale.
Nella storia del pensiero sociologico, “Il contadino polacco” di Thomas e Znaniecki rappresenta un classico esempio di come la storia di vita possa essere una fonte utilissima di notizie, ma soprattutto di rappresentazioni di contesti sociali, politici, economici e personali. Quelle storie che raccontano di immigrati polacchi in America sono e saranno fonte d’ispirazione per la rubrica MulticulturalMente.
Resta inteso che il nostro intento sarà semplicemente quello di dar voce a viaggiatori, stranieri e italiani, che a noi piace chiamare animemigranti.
Questa volta il nostro amico intervistato vuole rimanere anonimo per questioni di privacy e non possiamo che accontentarlo. Racconterà brevi aneddoti e darà informazioni che ci auguriamo possano interessare i nostri lettori.
Cosa ti evocano le parole “migrazioni” e “multiculturalismo”?
La prima volta che ho affrontato un viaggio è stato all’età di 19 anni, circa 15 anni fa. Emigravo, andavo a fare il militare. Mi muovevo in treno e non sapevo neanche dove si trovasse quel luogo in alt’Italia. Da quel momento in poi sono stato a Foligno, Capua, Bracciano e Pordenone.
L’esercito italiano è composto per la grandissima maggioranza da persone del sud e “sfottò”, meridionalismo e settentrionalismo, se cosi possiamo chiamarli, sono all’ordine del giorno. Ho fatto missioni in Afghanistan. Ah, ho un fratello oltreoceano!
Se ti chiedessi di raccontarmi un episodio su questi due temi, cosa mi diresti?
Be’, allora te ne racconto due. Ricordo che una volta a Kabul un soldato americano, per aiutarsi nel contatto con la popolazione afghana, tolse lo scudettino a stelle e strisce dalle sua manica e in cambio mise quello italiano. Spiegò che gli americani lì erano odiati, mentre un italiano era riconosciuto come una persona che faceva del bene. Le sue parole ci diedero tanta rassicurazione, eravamo più tranquilli, venivamo in pace. Abbiamo costruito scuole, ospedali, pozzi per l’acqua, abbiamo curato con i nostri medici e veterinari la loro gente, il loro bestiame che a volte, ti assicuro, sembrava essere quasi più importante delle stesse persone. Dopo qualche giorno dal mio rientro seppi dal telegiornale che in un attentato alla mia vecchia base erano morti degli alpinisti e un interprete italiano.
Poi ti racconto che tutt’oggi ho un amico afghano che si chiama Saeid. Ha 21 anni e vive ad Herat. Lavora come barista in una base italiana. Parla bene tre o quattro lingue, per non parlare del suo napoletano, e guadagna circa 300€ al mese, un lusso per un afghano. Mi racconta sempre di sognare un giorno nel quale possa studiare, di voler fuggire in Italia e di non riuscirci per difficoltà burocratiche, permessi, visti, costi… le solite cose diciamo. La sua condizione è ancora più difficile della normalità da quelle parti. Mi ha raccontato che suo fratello è stato decapitato e che una notte i talebani gli hanno lanciato una granata in casa. Devi sapere che lì c’è un’accesa lotta interna tra gli Afghani, cioè i civili, e i talebani, armati. Chi come Saeid e suo fratello lavora con gli stranieri è considerato un traditore e quindi rappresenta una potenziale vittima di torture, sequestri e attentati. Vorrei aiutarlo, ma non so come fare!
Credi si possa o si debba fare qualcosa per la conoscenza delle culture?
Certamente! Pensa che nel nostro addestramento di preparazione alle missioni cosiddette “di pace”, studiamo usi e costumi delle popolazioni che stiamo per “visitare”… diciamo così. Oltre alle giornate di preparazione fisica, militare e strategica, che in media durano dai tre ai quattro mesi, ci spiegano alcune cose per conoscere la nuova cultura e ci rilasciano degli opuscoli con dei consigli su cosa fare e cosa non fare assolutamente. Ad esempio ricordo che non dovevamo avere le punte dei piedi rivolte verso di loro mentre colloquiavamo o che non dovevamo guardarli insistentemente negli occhi. Le nostre donne dovevano indossare il velo quando erano ospiti in un villaggio, quando prendevano parte a una riunione o a un incontro con gli Afghani. Abbiamo studiato le loro tantissime etnie e la loro religione.
Grazie tante per la tua testimonianza e in bocca al lupo per tutto!
Fonte:(THAIPHONG – NEWS – CULTURE – ENTERTAINMENT – ARTWORK – MOVIE https://thaiphong.wordpress.com/2013/04/03/)