In occasione della Biennale Internazionale d’Arte di Benevento abbiamo intervistato Romeo Mesisca, un artista romano con idee ben precise sulla pittura. “Un’opera deve servire alla trasmissione di un’emozione da un’anima all’altra”
Un’esplosione di colori e contrasti, che si intrecciano tra loro per finalizzare l’immagine correttamente. Le opere di Romeo Mesisca, classe 1944, testimoniano una ricerca incessante dell’artista, che ha raggiunto livelli espressivi notevoli.
Romano di nascita, Mesisca si forma presso la scuola di Renato Guttuso, il grande pittore siciliano, che ha influenzato fortemente il suo cammino artistico. Il valore di Mesisca come pittore è sancito, oltre che dallo stile, anche dalle numerose esposizioni, allestite in molte città italiane. Noi lo abbiamo incontrato in occasione della BeneBiennale, la manifestazione d’Arte Internazionale, che si è tenuta a Benevento dal 18 al 27 aprile.
Romeo, la sua pittura nasce a Roma in via Margutta, dove nel 1953 prende forma la tradizionale celebrazione capitolina dei “Cento Pittori”. Come ricorda quegli anni trascorsi nella strada che fu allora il “nascondiglio” di pittori, scultori, poeti e musicisti?
Sono trascorsi quasi cinquant’anni, ma ricordo con molto affetto il periodo del mio esordio in pittura, quando i sogni e le speranze venivano alimentati dalle continue permanenze in via Margutta. Allora ero un giovane pittore, e nella storica strada romana avevo la possibilità di frequentare gli artisti che animavano la Capitale e di trascorrere, disegni alla mano, interi pomeriggi tra studi d’arte e Gallerie.
Via Margutta non era un nascondiglio, ma un’isola felice. Era il luogo dove un artista poteva ritrovare la sua entità. I maestri, a cui sottoponevo i miei lavori, dimostravano sempre comprensione e pazienza. Ricordo i lunghi colloqui con Omiccioli, De Magistri, Vespaziani, Purificato, Attardi, Sughi e tanti altri, che hanno contribuito alla mia formazione artistica, offrendomi il loro parere con sincerità.
Negli anni Sessanta in Italia si diffondono le prime manifestazioni di Pop Art. In quel periodo a Roma, in Piazza del Popolo, si incontrano spesso tre giovani pittori: Mario Schifano, Tano Festa e Franco Angeli, che, insieme ad altri artisti, danno vita a un movimento che viene chiamato appunto “La Scuola di Piazza del Popolo”. Lei entra in contatto con quella realtà. Chi erano i ragazzi di “Piazza del Popolo”?
Negli anni Sessanta, dopo aver conseguito la maturità, entrai in contatto con alcuni esponenti della “Scuola di Piazza del Popolo”, e in particolare con Mario Schifano, che incontravo nel suo studio sul Lungotevere. Oltre a Schifano, facevano parte del gruppo storico anche Tano Festa, Franco Angeli, Mimmo Rotella e Giosetta Fioroni. Il gruppo si riuniva presso la Galleria La Tartaruga e al Bar Rosati. Quest’ultimo divenne ben presto il ritrovo degli artisti che gravitavano tra Piazza Navona, Piazza di Spagna e Piazza del Popolo.
L’ingresso nella “Scuola di Piazza del Popolo” la segna profondamente. Come cambia la sua pittura?
Il contatto con gli artisti della “Scuola di Piazza del Popolo” rappresentò per me una fonte inesauribile di conoscenza, in quanto ognuno di essi seguiva un personale cammino intellettuale e figurativo. Frequentai il Bar Rosati per un paio di anni, fino al 1968, quando fui costretto a partire per il servizio di leva.
La ripresa dell’attività artistica, dopo la pausa militare, fu segnata da un profondo cambiamento. Grazie all’esperienza vissuta nella “Scuola di Piazza del Popolo”, mi muovevo con maggiore agibilità tecnica, e sempre proiettato verso una ricerca espressiva e personale.
Poi l’incontro con Renato Guttuso, la cui attività pittorica ha indubbiamente esercitato un forte influsso sulla sua arte. In che modo?
L’incontro con Renato Guttuso ha influito in modo consistente sulla mia ricerca pittorica. Nonostante avessimo maturato nel corso degli anni visioni diverse del mondo – Guttuso aderiva a un progetto molto rigido, io, al contrario, navigavo in un mare di incertezze – nutrivo una profonda stima nei suoi confronti. E, ancora oggi, a distanza di tempo, l’ammirazione verso colui che considero il mio principale maestro è rimasta immutata.
[ads2]
La frequentazione con Guttuso dura molto tempo. C’è un aneddoto di quegli anni in particolare che le piace ricordare?
In quegli anni sia io che Guttuso adempivamo a impegni politici e sociali, che esulavano dall’attività artistica. Il nostro rapporto si interruppe a causa di una scelta politica diversa, che mi allontanò, per un breve periodo, anche dalla pittura. Quando ripresi a dipingere, purtroppo era troppo tardi. Non incontrai mai più Guttuso. Il ricordo più bello che conservo di lui è la calma, con la quale osservava i lavori che gli sottoponevamo. Non ci dava giudizi. Anzi, ci incoraggiava, spingendoci sempre verso la ricerca.
Come nascono i suoi quadri?
Inizio quasi sempre dal disegno, cercando di cogliere il meglio della vita e della cronaca, e tentando di superare i confini imposti dalla retorica. Alla base del mio lavoro c’è la ricerca, che va illuminata e onorata con l’impegno quotidiano.
Nelle sue opere la materia si mostra prepotentemente ai nostri occhi e viene usata con vitalità espressiva insieme alla forza del colore. Cosa esprime questo gioco di materia e colore? Quali sensazioni vuole suscitare?
Premetto che ho sempre ammirato Caravaggio, Raffaello e Matisse: da giovane tentavo di riprodurne la tecnica, cimentandomi nella ricerca di miscele di colore che richiamassero le loro opere. Come ho già accennato, il mio lavoro inizia con la costruzione dell’immagine. Solo successivamente, e in modo in apparenza sprovveduto, distendo la materia, che si rivela ripetitiva e piuttosto sgradevole. Cerco sempre di ottenere un contrasto cromatico: solo accostando colori caldi e colori freddi, chiari e scuri, oppure due tonalità complementari, riesco a comunicare le mie tensioni emotive.
Il riconoscimento più gratificante che ha ricevuto nell’ambito della sua attività artistica.
Nel lontano 1974, a soli trent’anni, ricevetti dalla fondazione Ars Dictandi e dal Comune di Roma il Campidoglio D’Oro per la pittura e la nomina a Maestro D’Arte H. C. Data la mia giovane età, il riconoscimento giunse inaspettato. Ma lo ricordo con piacere anche per un altro motivo: quando mi trovai di fronte a un bivio, quel premio illuminò la mia strada. Fu allora che scelsi definitivamente la pittura, scrivendo in maniera indelebile il mio futuro.
Quali opere ha presentato alla BeneBiennale di Benevento?
“Il pittore” e “Le visite notturne”. La scelta non è derivata da motivazioni particolari. Si tratta di opere rappresentative del mio lavoro recente.
Nel corso della sua carriera artistica, lei ha esposto i suoi quadri in numerose gallerie, partecipando più volte anche alla Biennale di Firenze. Come giudica questa prima Biennale di arte contemporanea allestita a Benevento?
Innanzitutto, tengo a precisare di essere molto affezionato al territorio sannita perché mio padre è nato ad Apice, un piccolo paese della provincia di Benevento. Per quanto riguarda la Biennale spero che non rimanga un episodio isolato, ma diventi, piuttosto, un importante appuntamento per le realtà artistiche del Sud Italia.
Un’ultima curiosità. Cosa significa essere pittore oggi?
A questa domanda desidero rispondere con le parole di Renato Guttuso. “La pittura è il mio mestiere. Essa riproduce il modo con cui mi rapporto al mondo. In sostanza, credo che la pittura rappresenti la possibilità più idonea per capire e farmi capire…”.
Ecco, in queste parole sono custodite le chiavi del mio studio.