Il tema del reinserimento sociale affrontato attraverso le testimonianze dei detenuti del “carcere” I.C.A.T.T. di Eboli a Salerno
Ho mangiato una pizza con i detenuti del “carcere” I.C.A.T.T., Istituto di custodia attenuata per il trattamento dei tossicodipendenti, di Eboli a Salerno. Oggi mi sono avvicinato per la prima volta a quell’ideale di reinserimento sociale anzi di riconciliazione con la società civile di cui tanto ho letto e studiato ma di cui non avevo mai toccato con mano l’essenza.
Massimo, il mattatore dello spettacolo teatrale andato in scena con l’ausilio di altri detenuti, “ospiti” così chiamati da una responsabile del progetto di recupero che fra le altre attività prevede anche il lavoro all’esterno del carcere come descritto dall’art. 21 dell’Ordinamento penitenziario, denuncia che solo la cultura può far capire che si può agire anzi pensare in un modo diverso e che la stessa, di conseguenza, conferisce la possibilità di poter parlare in un modo alternativo alla massa.
“Perché siamo tutti uguali, nel modo di parlare, di fare” ecc. Così autodenuncia l’omogeneità che le persone assumono caratterialmente all’interno di un istituto penitenziario: quei piccoli sotterfugi nel detenere le proprie scarpe oppure le sigarette – racconta. Un micromondo, insomma, che il cappellano e lo psicologo dell’ICATT senza troppi giri di parole non esitano a smascherare, nel senso che avvertono che non conterà più nulla una volta che ne sarà uscito se non per i frutti che ne avrà saputo trarre.
Massimo sconta attualmente una pena a termine (cd. fine pena), ciò significa che un giorno potrà uscire (a differenza di altri che non hanno fine di pena come boss mafiosi ecc.) e lo psicologo l’ha aiutato a capire – così lo stesso professionista tiene a sottolineare i modi del suo operato. E’ come ci si comporta in una certa situazione e in ogni situazione – sottolinea il medico – il fattore determinante e dirimente che fa la differenza fra un soggetto che può incarnare una dignità d’animo da uno che non può fregiarsi di questo valore. E anche in carcere c’è e ci dev’essere una dignità.
Massimo, poi, arriva a citare “Dei delitti e delle pene”, quale fiore all’occhiello della letteratura illuminista penale europea valida tutt’oggi e che dal 1764 iniziò a risuonare in Italia. Una cultura che ora non vede effettivo riscontro con quelle idee di rieducazione siglate dal Beccaria mentre proprio nello stivale drammaticamente si assiste al trattamento più disumano dei detenuti di tutta l’Unione Europea e forse persino oltre. Egli ringrazia la direttrice dell’Istituto perché ha fiducia in lei e nel percorso che segue fatto di persone, assistenti, polizia, delle figure professionali quali psicologo e medico, i quali rappresentano per lui un serio punto di riferimento che, per quelli che ne hanno avuto il privilegio, si può identificare nella famiglia.
Massimo racconta che, invece di scappare dopo la notizia dell’ultima condanna comminatagli (15 anni), ha deciso di parlarne con loro, con la sua di famiglia e di affidarsi ad essa perché è riuscito a capire che può vedere le cose in modo diverso, non più e forse con il mors tua vita mea ma confrontandosi e criticandosi. Oggi, per poche ore, non mi è sembrato di stare nel mondo che noi tutti conosciamo e immaginiamo, quel mondo intriso di povertà d’animo e di tendenze all’esclusione sociale, ma in un alveo che concretamente realizza le buone prassi di reinserimento sociale del condannato tanto proclamate dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Era per l’appunto una comunità e non una prigione.
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Molti altri, non solo Massimo, sono stati i detenuti che hanno dato la loro testimonianza, confessando i loro peccati e celebrando l’Istituto a differenza di altre carceri come ad esempio Poggioreale. E a proposito di questa divergenza, la direttrice per parte sua ha dichiarato che il problema delle carceri è spesso un problema di organico, di carenza di un determinato servizio, come ha sottolineato anche l’On.le Anna Petrone, cioè le idee e le intenzioni non mancherebbero ma poi di sovente vengono a mancare le risorse economiche. Attualmente, infatti, la direttrice si sta battendo ad esempio per fornire il carcere di un ginecologo. Al tempo stesso, ella sta portando avanti il progetto di uno o più Istituti ad hoc in Campania per le madri condannate a pena detentiva per far sì che possano stare accanto ai propri figli: un progetto già operante in altre città italiane che ha riscosso un enorme successo. Ella non beneficia che di circa 2 mila euro per la formazione teatrale dei detenuti ma, ciò nonostante, proprio con parte del ricavato degli spettacoli dei detenuti ha partecipato al finanziamento della costruzione di una scuola in Africa.
Una realtà come l’ICATT, tuttavia, non può valere per tutti i condannati, come ad esempio per quelli più incalliti, per i quali l’ammissione ad un’espiazione della pena in una modalità più attenuata non può che passare in generale ed innanzitutto da un periodo di pena detentiva pluriennale ordinaria, ma ciò non toglie che anche questo passaggio dovrebbe rispettare i crismi dell’umanità. “Non dovrebbero essere celle, lì ci si dovrebbe solo dormire”, denuncia difatti la direttrice, che chiarisce anche che purtroppo la società ci ha abituati ad un concetto di carcere fatto di sbarre e quindi di costrizione psicofisica laddove “la cella” dovrebbe servire al solo pernottamento. Gran parte del tempo, invece, i detenuti lo trascorrono proprio fra quelle quattro mura che diventano una forma d’inflizione punitiva, di restituzione del male arrecato e non rieducativa e riabilitativa come appunto dovrebbe essere.
Articolo a cura di Alessandro Campagnuolo