Oskar Schindler, in una scena del film di Spielberg dedicato alla Shoah, dialoga con la giovane ebrea Helene Hirsch
[ads2] Il colloquio tra i due costituisce un ottimo spunto per interessanti riflessioni, sulla legge delle dittature e sul comportamento dell’uomo che vuol sentirsi superiore.
C’è una scena, nel celebre film di Steven Spielberg del 1993, Schindler’s list, che merita una certa attenzione: il protagonista, Oskar Schindler, direttore di una fabbrica il cui personale è costituito quasi esclusivamente da ebrei, si trova a dialogare con una giovane ebrea, Helene Hirsch, domestica di un importante ufficiale nazista.
Mentre in casa dell’ufficiale è in corso una festa, una delle tante, la buia cantina nella quale la ragazza trascorre le notti diventa teatro del dialogo col magnanimo direttore cecoslovacco.
Due verità emergono dalle parole dei personaggi, verità delle quali una trova espressione per bocca di Helene, l’altra è Schindler stesso a portarla alla luce. La prima di esse riguarda il funzionamento generale del regime nazista, ma si potrebbe dire di tutti i regimi dittatoriali, la seconda è piuttosto inerente all’essere umano e al suo modo di rapportarsi a dei modelli ritenuti assoluti.
Disperata, in lacrime, Helene si rivolge a Schindler, esponendogli inconsapevolmente il nucleo centrale del dramma del sottomesso, di colui che si trova in balia dell’altrui arbitrio: in qualunque modo ci si comporti si è sempre puniti, non esiste una regola che, se seguita, assicuri l’impunità. Se nella dittatura è la volontà del singolo (o dei singoli appartenenti al partito) che assurge a norma, non c’è modo di sfuggire all’arbitrarietà della condanna e della conseguente punizione. È il gioco perverso nel quale le regole vengono cambiate proprio mentre si gioca.
Si pensi al gioco degli scacchi: se uno dei giocatori, a differenza del contendente, si arrogasse il diritto di decidere, ad ogni mossa, come debba esser mosso ciascun pezzo, a costui sarebbe assicurata la vittoria in partenza. Le regole del gioco coinciderebbero col suo arbitrio.
La Helene di Schindler’s list sperimenta sulla propria pelle la mostruosità di questo meccanismo che conduce alla coincidenza di legge e volontà.
Il secondo elemento che vale la pena di mettere in evidenza del dialogo tra Schindler e Helene riguarda più da vicino l’esperienza personale della giovane.
A determinare il comportamento violento di Amon Göth, l’ufficiale nazista che ha voluto la ragazza ebrea come domestica, paradossalmente, non è tanto l’odio in sé e per sé, quanto piuttosto l’odio misto all’attrazione che egli prova verso di lei. Come afferma Schindler, Helene non gli è indifferente, come lo sono tutti gli altri ebrei, ed è proprio in virtù di questa non indifferenza che Amon non è ancora riuscito ad eliminarla.
Tuttavia Helene è e resta ebrea e le origini della giovane gli impediscono di manifestarle qualsiasi forma d’amore.
In quanto ufficiale nazista, Amon deve aderire ad un modello ben preciso per mantenere la propria identità, o sarebbe meglio dire la propria presunta superiorità: cedere ad una qualsiasi forma d’amore per un’ebrea significherebbe per lui il degrado.
Per dimostrare a se stesso, prima che ad ogni altro, l’indifferenza nei confronti di Helene, l’ufficiale utilizza l’unico mezzo che conosca: la violenza.
L’uomo turbato dall’esperienza dell’alterità, attratto allo stesso tempo da questa alterità, la nega, tenta di schiacciarla, ma si ferma sempre un passo prima della fine, proprio in virtù della fondamentale attrazione. È così che il nazista si ritrova schiavo del circolo vizioso che lui stesso ha creato.
L’ultimo nome della lista di Schindler, quella dei suoi operai ebrei sottratti all’olocausto, sarà quello di Helene Hirsch, che Amon Göth cederà per un’ingente somma di denaro e una partita a carte. L’atto finale della vicenda della giovane, in alternativa, sarebbe stata la morte, inflitta dall’ambigua pietà di un aguzzino/amante che avrebbe legiferato, forse in questo caso con una certa logica: “La morte è meglio di Auschwitz”.