Io, indefesso camminatore e convinto assertore del meglio un caffè offerto a te che pagare pure la frazione d’ora, a questo mi sono ridotto: a parcheggiare l’auto a uno sputo dal Tribunale. Sono disposto a tutto, cioè, pur di evitare la iattura del candidato rampante
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Il fatto è questo, statemi a sentire. Prima, quando ancora parcheggiavo l’auto al Parco Pinocchio per il Giudice di Pace, e poco dopo Piazza Alario per il Tribunale, mi esponevo all’incontro di almeno sei candidati (alla carica di sindaco o di consigliere comunale) nel lungo tragitto che mi separava dalla giurisdizione di approdo. Certo, con l’approssimarsi delle elezioni amministrative, avevo pure imparato a riconoscere le stimmate del candidato e, per quanto possibile, ad evitarli. Per esempio, se a cento metri vedevi Gigino il meccanico in giacca e cravatta, lui che l’unica volta che l’hanno visto senza la tuta Tamoil è stato il giorno del suo matrimonio, cambiavi marciapiedi e alzavi la testa manco avessi infilzato un amo sotto la gola che ti tirasse su.
Indizio certo di candidatura, a ben vedere, era pure il broncio proverbiale di Tommasone (si narra, al proposito, che mai occhio umano l’abbia visto sorridere), che si scioglieva per magia nel più sguaiato sorriso che un venditore di pentole abbia mai indossato. Anche in questo caso, quindi, se avevi la fortuna di intercettare questi cambiamenti in tempo utile, potevi sempre fingere una telefonata o svicolare in qualche provvidenziale traversa per sottrarti al pericolo.
Indizio certo di presenza di candidato, era pure il cambiamento non dell’abito o del sembiante, come nei due esempi precedenti, ma del comportamento. Per intenderci, se don Ciccillo Scapece, famoso in tutto il quartiere per aver fatto mille battaglie contro i gatti randagi, improvvisamente si faceva vedere con un siamese al guinzaglio, non c’erano dubbi di sorta: don Ciccillo Scapece, sicuro come il fuorigioco non fischiato alla Juventus, si era fatto circuire dalle paillettes della candidatura. In questo caso, per sfuggire agli assalti elettorali del candidato con siamese bastava, non appena lo Scapece si fosse avvicinato per perorare la sua causa, cimentarsi in una serie di starnuti che denunciassero un’allergia acuta al pelo del gatto.
Ora, invece, da quando ho preso l’abitudine, deleteria per la salute e per le tasche, di parcheggiare quanto più vicino possibile al Tribunale o al Giudice di Pace, dimezzo gli incontri con i candidati. Contraltare di ciò, però, è il fatto che la giacca e cravatta, prima valida alleata nel preannunciarmi il possibile candidato, ormai non mi è più di alcun aiuto. Molti colleghi, infatti, sono sempre vestiti così ed è difficile, se non impossibile, distinguere la giacca e cravatta candidata da quella d’ordinanza. Con l’impensabile conseguenza che adesso, spia di possibile presenza di candidati in questo contesto, può essere proprio il contrario della giacca e cravatta: una mise casual, cioè, da parte di colleghi che vogliono far trasparire maggiore vicinanza e meno formalismo nei confronti degli elettori.
Insomma, più si avvicina il fatidico giorno del cinque giugno, più mi verrebbe voglia di murarmi tra le pareti che trasudano fascicoli dell’archivio.
Sono le due di notte: ora ideale per farsi un giro per Salerno senza incappare nelle lusinghe a buon mercato dei candidati. Certo, ci sono pur sempre le pennellate stanche degli attacchini, ma quelle, più che chiedere voti, incollano visi e slogan che insozzano la città con altre promesse.
A un metro da me si ferma un furgoncino, di quelli cabinati. Un ragazzo scende dall’automezzo e si affaccia su un precipizio di umanità. Sotto un manifesto elettorale, un barbone infreddolito nonostante la primavera inoltrata, farfuglia brividi di una qualche nostalgia remota. Il ragazzo si accovaccia, gli dice qualcosa, e poi gli stende la coperta lunga tutto il suo corpo da ultimo.
Dieci centimetri più in alto di quella vita, uno sguardo tronfio chiede maggiori risorse per le imprese perché “arricchirsi è un vanto”.
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