L’arch. Maria Giuseppina Grasso Cannizzo e il prof. arch. Sergio Pone, sono stati gli ospiti della 3° giornata del GATE Salerno
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La terza giornata del Festival GATE di Salerno, ha visto come protagonisti due architetti italiani professionalmente distanti: Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, architetto introverso amante del restauro e delle arti visive, e Sergio Pone, Professore al Dipartimento di Architettura della Federico II di Napoli, ricercatore di nuove tecnologie.
Due modi di fare architettura, due percorsi differenti, accomunati dagli stessi ideali: accettare l’eclettismo funzionale di una struttura, andare oltre il concetto di linguaggio architettonico e sperimentare nuovi materiali. In una parola, apertura.
Il Professor Sergio Pone, durante la conferenza, ha illustrato il lavoro che negli ultimi anni lo ha tenuto impegnato insieme al suo gruppo di ricerca. Un lavoro basato sull’utilizzo del legno come risorsa fondamentale nelle costruzioni, sulla leggerezza, sulla rapidità e sul riciclo.
Tutto questo concentrato nella cosiddetta Gridshell, una struttura che sfida lo scetticismo dell’Italia nei confronti dell’uso del legno nelle costruzioni e che trasforma una griglia piana in una curva dolce, un lenzuolo rigido che viene “alzato” e “costretto” ad assumere la forma di un guscio.
“Non si può più pensare di costruire ancora in cemento armato– spiega Sergio Pone –un materiale per niente resistente ed ecologico.”
Differente è stato, invece, il lavoro di Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, architetto introverso che non ama stare al centro dell’attenzione, nella vita come nelle sue opere. Formata nell’ambito del restauro e delle arti visive, sin dai suoi primi lavori emerge il suo particolare concetto di architettura. Per Grasso Cannizzo all’architetto non spetta il compito di creare qualcosa di eterno o di immutabile, ma deve giocare con gli spazi, con i volumi, per creare infinite combinazioni e lasciare spazio alla vita delle persone che ne usufruiranno.
Nelle sue due opere più significative, la casa per vacanze a Noto e la Torre di controllo a Marina di Ragusa, emerge la sua sensibilità nel creare volumi rapportati al luogo in cui si ergono e la possibilità che essi possano mutare nel tempo grazie all’uso che ne viene dato.
La sua avversione nei confronti di un uso prefissato di uno spazio e della concezione secondo cui un’architettura deve restare immutata nel tempo, non sempre è stata accettata dai più.
Alla nostra domanda, infatti, di se sia mai stata ostacolata o allontanata per il suo modo di pensare ha risposto: “Io ancora oggi devo capire se sono un architetto o meno, nonostante abbia quasi settant’anni. Molto spesso le mie idee non sono state accettate, ma non mi importa, anche perchè ho incominciato a frequentare gli architetti da solo una decina di anni, fino ad allora avevo frequentato persone vicine al mondo delle arti visive. A me non importa dei canoni classici dell’architettura, e non mi piace prendermi la responsabilità di creare luoghi eterni. Anche per quanto riguarda gli arredi, voglio che le persone portino dentro gli edifici le loro vite.”