Nell’antica Roma la vita media era appena di 18 anni. Oggi abbiamo raggiunto, eterni giovani, un’aspettativa di vita di circa 80 anni. Dov’è l’inganno?
[ads2]Oggidì, grazie all’enorme sviluppo della medicina, della scienza, della tecnica, e di una serie corposa dei saperi più disparati, siamo arrivati a un’aspettativa di vita di circa 80 anni.
Sicuramente un bel traguardo, non c’è che dire; eppure, a ben vedere, non sufficientemente “alto” per giustificare la perniciosa abitudine che ha ormai minato dalle fondamenta il funzionamento del nostro orologio biologico (la bussola va impazzita all’avventura): estendere, dilatare fino all’inverosimile (che non può, per ciò stesso, non sconfinare nel ridicolo) la fascia dell’età “giovane“.
Non molto tempo fa, le fasi anagrafiche erano all’incirca le seguenti: fino a 10 anni, la fanciullezza; da 10 a 16 anni, si parlava di “ragazzi”; dai 16 e fino, al massimo, ai 20 anni, di adolescenza. Dopodiché, c’era poco da fare: si entrava a pieno titolo nel mondo degli adulti. Stop. Nessuno spazio ai distinguo o alle relativizzazioni di sorta.
Seguendo questo canovaccio, a 30 anni si sarebbero dovuti avere, volontà permettendo, un lavoro, una moglie e dei figli.
E infatti, la stragrande maggioranza delle persone di quell’età, possedevano proprio tutto ciò. Anche per questo, probabilmente a nessuno, se non per celia, sarebbe venuto mai in mente di considerare “ragazzo” un trentenne.
Oggi, invece, c’è stata la rivoluzione copernicana che ha piazzato, al centro della nostra vita, il sole dell’eterna gioventù.
Certo, la precarietà, il tempo sempre maggiore trascorso sui libri, e una serie di altri cento motivi potrebbero spiegare il fenomeno. Non del tutto, però.
Per capire appieno questa deleteria tendenza, difatti, bisogna guardare tra le pieghe della nostra società.
È qui, infatti, che si annida l’inganno, la grande operazione mistificatrice del nostro tempo.
Da piccolo ricordo che la maestra, sul pullman della gita scolastica, mi si fece vicino e m’implorò, a me che ero il più “saggio” di tutti, di contribuire a tenere buoni i miei compagni.
Quando mi sentii definire “saggio”, quasi mi venne da piangere.
E certo, perché per la mia mente di allora, il saggio era per forza di cose un vegliardo con la barba lunga e i denti gialli che si metteva in riva al fiume a sgranare meditazioni sulla morte, armato dell’immancabile bastone nodoso. Per intenderci, alla stregua del vecchissimo (si narra che avesse all’incirca trecento anni sul groppone quando si decise a tirar le cuoia) Nestore, re di Pilo.
Ecco, la cosa che più mi rendeva ripugnante quell’accostamento, era proprio la vecchiaia. Lo stato, cioè, che più rifugge l’uomo di ogni tempo. E del tempo attuale, più che mai.
Ma perché ho parlato d’inganno e di operazione mistificatrice? È presto detto.
Il deus ex machina della nostra società è il mercato.
Per potersi alimentare, questo Minotauro mefistofelico, ha bisogno di convincerci della nostra giovinezza, anche a dispetto degli anni che nel frattempo esigerebbero una qualifica diversa. Ed ecco che necessariamente “giovane” diventa “bello”, “produttivo”, “funzionale”. Già, proprio funzionale è l’aggettivo giusto.
Un tempo si produceva un frigorifero senza pensare alla morte industriale dello stesso, anzi, lo si fabbricava proprio perché lo si voleva pressoché eterno.
Comprate adesso un qualsiasi elettrodomestico, e vedete un po’ quanto vi dura. Nella migliore delle ipotesi, una decina d’anni; e ciò perché la sua morte è già prevista fin dal momento della creazione e della sua messa, quindi, sul rullo instancabile del mercato (la cosiddetta obsolescenza programmata).
Ma vi è di più. La gioventù sbandierata ai quattro venti anche a sprezzo del ridicolo, ha un’altra funzione di primaria importanza: quella di farci sentire continuamente disponibili.
Il giovane, difatti, può aspettare, può pretendere di meno, può accettare compromessi. In una parola, il giovane può e si deve accontentare di ciò che passa il (misero) convento. In altri termini, del transeunte.
E noi? Beh, noi che siamo felicissimi del fatto che ci hanno portato alla fonte dell’eterna giovinezza, beviamo estasiati, in attesa di diventare pretenziosi e di reclamare i nostri diritti quando raggiungeremo finalmente la maturità. E, infatti, che fretta c’è? Abbiamo appena cinquant’anni!
Per questo, armato dello specchio della mia vera età finalmente liberato dalle paturnie mistificatrici dell’ormai fu (mio) Dorian Gray, ti avverto, amico caro: “Chiamami ancora giovane, e io metto mano alla pistola. Senza pietà alcuna. Lo giuro”.