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Quando la crisi rende fragili: la lotta dei nuovi poveri

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Quando la crisi rende fragili: la lotta dei nuovi poveri

“In Italia ci sono sette milioni di poveri. Al Sud una famiglia su quattro è indigente”, si possono riassumere così i dati Istat relativi all’avanzare della crisi economica nel nostro Paese. Nuova povertà, nuovi poveri: quanti sanno davvero di cosa e di chi si parla quando veniamo bombardati da ogni parte con termini carichi di allarmismo e scevri di umanità?

La definizione della parola “povero” ci porta comunemente ad accostare questo lemma ad una persona priva dei mezzi economici di sussistenza e di tutto ciò che il denaro dovrebbe garantirgli: cibo, fissa dimora, lavoro, relazioni sociali, spesso dignità. Il povero è colui che non ha mai avuto nulla e sopravvive fra implacabili mancanze, supposta ignoranza e necessarie consapevolezze sulla sua condizione economica e sociale. La prima immagine che la maggior parte di noi tende ad associargli è quella di un senza tetto, totalmente emarginato, che vaga senza meta per le strade, chiedendo l’elemosina, dormendo sul primo cartone di fortuna. Ma il povero questo lo sa. Il povero sa leggere anche quello che i nostri occhi non hanno il coraggio di dire, e va avanti su un percorso piastrellato di stenti e amarezze senza farsi troppe domande.

Il “nuovo povero”, invece, a differenza di quanto molti sono portati erroneamente a credere, non è una banale versione moderna dell’indigente tradizionale, né un figlio meticcio della povertà. Il nuovo povero è l’italiano medio che soccombe alla crisi e che, nel percorrere la strada invisibile che lo condurrà alla miseria, non può fare a meno di perdersi in innumerevoli perché. Il nuovo povero è colui che si sforza con tutte le sue energie di non sembrare tale, ancorandosi disperatamente ai barlumi di normalità poveriche fanno di lui un “non povero” agli occhi della società da cui si sente costantemente vigilato e giudicato. Così egli, pur avendo una casa, un titolo di studio più o meno elevato, un lavoro, un’automobile, un cellulare, non riesce a garantirsi il soddisfacimento dei bisogni primari (detto in termini semplicistici “ad arrivare a fine mese”), a fare progetti per il futuro, a puntare al vertice di una piramide sociale che ne schiaccia prospettive, aspettative, speranze. Utopie che fino a qualche tempo fa rientravano nel normale processo di crescita e sviluppo dell’individuo e che ora sono appannaggio di pochi superstiti collocati al vertice di quella piramide che assomiglia sempre più ad un iceberg pronto ad essere inghiottito dal recesso continuo in cui navigano le nostre vite, tutte ugualmente in pericolo.

Il nuovo povero non è colui che regge il nostro sguardo pietoso/impietoso con conquistata indifferenza, ma il nostro vicino di casa, il nostro compagno di studi, un nostro parente, probabilmente noi stessi di lì a poco, uno dei tanti insospettabili che ogni giorno combattono una guerra silenziosa per nascondere le difficoltà quotidiane, il malessere interiore, la paura, la dignità offesa, il terrore di poter perdere tutto, davvero tutto. Non si tratta di ovviare a semplici problemi di natura economica, ma di affrontare tutte le insicurezze ad essi legate.  La vulnerabilità non nasce da situazioni limite in cui entrano in gioco capacità superiori, ma da circostanze ordinarie che fino a qualche anno fa erano assolutamente realizzabili: crearsi un background culturale adeguato alle proprie aspettative, trovare un lavoro, sposarsi, farsi una famiglia, provvedere al suo sostentamento, vivere una vecchiaia serena. Ma oggi, purtroppo, le scelte legate a questo percorso prevedono un rischio più alto del coraggio di intraprenderle.

Sempre un maggior numero di giovani, nonostante la laurea, è costretto a ridimensionare le proprie prospettive di realizzazione personale e professionale, accontentandosi di mestieri umili che spesso coprono di inutilità anni di studio e rinunce, o scappando all’estero alla ricerca di un riscatto che non sempre cancella il peso della delusione. E la disperazione della fuga non nasce da vani sogni di gloria, ma da un passato infangato dall’inconcludenza, da un presente negato nelle sue più piccole necessità, da un futuro bloccato nell’incertezza, nell’ansia di non riuscire a sopravvivergli senza cedere a squallidi compromessi o a definitiva arrendevolezza. Un disagio che inevitabilmente investe anche il settore emozionale e valoriale. Basta entrare in una qualsiasi discoteca per rendersi conto del degrado in cui versano gli adolescenti (e i presunti tali) e dell’instabilità emotiva che talvolta sfocia nella ricerca dell’eccesso e nel tentativo prematuro di compiere un salto generazionale destinato a precipitare nel vuoto, nonostante l’ostentata spavalderia.

Sposarsi diventa sempre più un miraggio, il coronamento di sentimenti spesso travolti e corrotti dalla crisi, dalla complessità di restare uniti anche quando i conti non tornano, quando la tristezza precede i sorrisi, quando la rabbia annerisce ogni cosa. Ed ecco formarsi la catena interminabile di separazioni, di divorzi, di lotte ingiuste, di stragi familiari, di figli contesi, di esistenze spezzate prima ancora di essere realmente in due. Relazioni sociali bloccate nella diffidenza, nel timore, nell’assenza totale di quei valori e di quella fermezza che dovrebbe provvedere alla salvaguardia dei rapporti, evitando ai problemi di sfaldarne la solidità al primo impatto.

Ma non solo. Spesso alla solitudine si accompagna il fallimento dell’azienda in cui si lavorava da anni, la perdita del lavoro, il mutuo e le bollette che non si riescono più a pagare, il mantenimento dei figli che non può essere garantito.. l’elenco potrebbe procedere ben oltre e finire nel modo peggiore, come attesta il numero sempre crescente, spaventoso, di suicidi nell’ultimo decennio. Gente abituata ad accontentarsi di poco, motivata da umili ambizioni realizzate a prezzo di enormi sacrifici, che improvvisamente si trova privata di tutto, mutilata, emarginata, costretta a saldare con la vita i debiti con lo Stato.

Anziani, infine, che all’assenza di compagnia, devono aggiungere anche eventuali malattie, disabilità dovute all’avanzare dell’età, una pensione che spesso non basta a coprire le spese dell’affitto e delle medicine, ostacoli che li costringono a trascorrere l’ultimo pezzo della loro vita con il fardello dell’imbarazzo sulle fragili ossa corrose dal tempo, che toglie tutto nei momenti più impensati.

C’è una parola che accomuna questi piccoli esempi umani, il giovane neo-laureato demoralizzato dalla mancanza di occupazione, il padre appena divorziato che non riesce a pagare gli alimenti, il cinquantenne appena licenziato, l’anziano costretto a recarsi a testa bassa alla mensa dei poveri più vicina: “vergogna”.

La vergogna, più della tristezza, è ciò che rende queste persone davvero fragili, un esercito di senza nome che si muove indifeso nelle strade di ogni città d’Italia, lottando per difendere quella dose di pudore che li fa sentire ancora uomini fra gli uomini. La vergogna è ciò che atterra i loro visi quando sono costretti a chiedere aiuto, a piegarsi alla ferocia della disperazione, a mostrarsi nella loro debolezza più grande. La vergogna è ciò che provano nei confronti di quanti li hanno visti fallire: genitori, mogli, figli, fratelli, amici, da cui spesso prendono le distanze per obliare la verità, per non trovarsi costretti a confessare il dolore che li logora, per non ferirli. La vergogna è ciò che provano quando faticano a riconoscersi, e non solo di fronte a uno specchio. La vergogna è ciò che molti preferiscono chiamare “il destino della povertà”.

E invece no. La vergogna è ciò che dovrebbero provare tutti quelli che stanno a guardare l’impoverimento del nostro Paese limitandosi ad ignorare o tamponare i problemi, ricorrendo a soluzioni temporanee ed inefficaci. Molte organizzazioni, associazioni, no profit e non, stanno facendo tanto per tentare di restituire un tenore di vita dignitoso a queste persone, ma il loro impegno non basta. Non basterà. L’Italia necessita di cure più profonde. Non è sufficiente disinfettare i feriti, bisogna guardare attraverso la crisi, entrarci dentro, affondare lo sguardo nel dolore, nella sfiducia, nell’indignazione, nell’impotenza, nell’impossibilità, capirne cause e ragioni, andare oltre questioni meramente materiali.

Le deficienze non sono attribuibili esclusivamente al Governo che osserva dall’alto della sua invulnerabilità il disagio che investe la popolazione. Forse gli errori più grandi appartengono proprio alla generazione che ci ha preceduti, che non ha tenuto conto del fatto che il progresso non si basava su risorse illimitate. L’uso spropositato che ne ha fatto, ha trasformato una società in via di sviluppo con prospettive ancorate alla realtà, in una pseudo-società assetata di ricchezze irreali. Un’opulenza basata sempre più su beni effimeri, legati più a questioni di apparenza che di necessità, a cui si sono contemporaneamente contrapposte possibilità sempre minori.

Altrettanto colpevoli sono i media, che non solo offrono una versione distorta della crisi, ma propinano un catalogo di fastosità che moltiplica le aspettative individuali, proponendo un surrogato di felicità facilmente desiderabile, ma difficilmente acquistabile. Il senso di inferiorità che ne deriva è spesso risolto con lo sfoggio ad ogni costo di questi piaceri/oggetti superflui, che arrivano addirittura ad identificare chi li possiede, rendendo inutile qualsiasi qualità interiore o intellettiva. L’ambiente sociale in cui si verifica questo processo di impoverimento/indebitamento, che include indistintamente famiglia, scuola, politica e gruppo dei pari, fa poco o nulla per contrastare l’insensibilità etica dell’azione comunicativa, anzi, spesso ne asseconda l’insensatezza morale, ridimensionando il sistema valoriale in base alle sue strategie.

Fino a quando non realizzeremo il vuoto che si nasconde dietro questi falsi miti, dissipando le idolatrie alla radice e concentrandoci sulle urgenze primarie, non riusciremo mai a capire il vero senso in cui deve muoversi la lotta dei nuovi poveri. È una battaglia che non può essere vinta con le armi della superficialità, ma attraverso interventi mirati, concreti, collettivi, condivisi, reali. Solo quando questa immonda deprivazione di opportunità verrà debellata, riformando e riqualificando le possibilità economiche e sociali ed ottimizzando le risorse, si potrà aspirare a un rinnovamento che abbracci indistintamente ogni settore della vita pubblica e privata.  Il giorno in cui sarà attenuato il dislivello tra chi ha tutto e non vuol rinunciare a nulla e chi in quel nulla è costretto a viverci, quell’esercito potrà finalmente marciare a testa alta verso un ritrovato benessere, che cancelli l’immeritato senso di vergogna che ha umiliato le loro labili ed innocenti esistenze.