Molti giovani italiani parlano di ‘trasferirsi all’estero’, perché non vogliono usare il termine vecchio e desueto di ‘emigrazione’: un termine che ricorda la povertà di nonni e bisnonni. Altri invece lo fanno: per studiare mantenendosi fuori, per lavorare dopo la laurea, per semplice e naturale voglia di conoscere. C’è anche però chi rimane, tra mille difficoltà, tentando di portare avanti un progetto lavorativo e di vita nel nostro meridione. Abbiamo intervistato tre casi simbolo, come potrebbero essercene di altri: una giovanissima che ha deciso di terminare i suoi studi in Francia, una donna che dopo la laurea si è trasferita a Mosca per insegnare, un ragazzo che invece lavora ad un progetto nel salernitano come insegnante in un un centro privato. Quali sono i limiti e gli orizzonti, quali le difficoltà e le gioie di queste scelte così disparate?
L. V.: Anna Sandano, studentessa-lavoratrice nella metropoli parigina. Il perché di questa scelta: cosa l’Italia non ti offriva e cosa ti manca dell’Italia dopo due anni?
A. S.: Sono arrivata a Parigi per motivi di studio, più precisamente, per una necessità interiore. L’Italia ha vissuto e vive tuttora un periodo oscurantista. La piccola, grande e media impresa succhiano le energie dei giovani, la classe politica non investe minimamente nella cultura e nell’istruzione: mi sentivo appesantita quanto il mio Paese. Avevo bisogno di stimoli , di esplorare nel vissuto una lingua e una cultura. Non solo: per me quell’aereo per Parigi significava aprire il mio percorso alla possibilità dell’incontro,al rischio del confronto, alla creatività della vita. Spesso si parla di emigrazione come un abbandono delle propria terra. Io credo che questa parola racchiuda altri significati, poiché partire non significa necessariamente rinnegare le proprie origini, ma aprirsi alla scoperta di sé e del mondo. anzi in un certo senso, il viaggio è sempre e comunque la riaffermazione del punto di partenza attraverso il cambiamento.
L. V.: Cosa ti sentiresti di dire ai giovani che non riescono a realizzarsi in Italia? Credi si più giusto lottare per crearsi una piccola realtà nel proprio Paese, o che sia più coraggioso partire? Senza dubbio capirai che entrambe le decisioni sono cariche di aspetti positivi e negativi.
A. S.: Emigrare è comunque una delle tante possibilità. Non potrei dire quindi se sia meglio restare o partire. Credo fermamente che il problema non risieda nella preferibilità dell’una o dell’altra. L’essenziale è trovare una verità di vita che ci corrisponda, riempire di sentimento le nostre scelte. Come in ogni cosa, bisogna andare dritti alla radice. E necessario prima trovare il luogo, geografico o interiore che sia, in cui ci si riconosce, altrimenti non si riuscirà mai a creare nulla di costruttivo per sé e per gli altri. L’idea che l’emigrazione strappa al paese il proprio potenziale è parzialmente illusoria. L’importante è affinare l’intuito, coltivare un potenziale, pensare e comporre la propria vita in maniera creativa, prestare attenzione alla propria voce e a quella degli altri.
L. V.: Sydney Vicidomini, laureata in Lingue, con esperienze all’estero (Inghilterra, Germania, Russia) e che attualmente insegna al Centro di Cultura Italiana di Mosca. Da Mercato Sanseverino alla Russia: cosa porteresti a casa in Italia della metropoli? Quali sono le difficoltà primarie che incontri e che ti fanno rimpiangere casa?
S. V.: Cosa porterei: la libertà sessuale. Non voglio sembrare eccessiva e ipercritica, ma avere a che fare con donne russe, sebbene mi metta a contatto con una frivolezza e un materialismo al quale non sono abituata, mi fa capire continuamente a quanti fronzoli siamo invece abituate noi italiane e quanto qui si può, vivendo come me tra due culture, sviluppare la propria personalità in maniera diversa, molto più libera e autonoma. Non mi riferisco alle abitudini sessuali in sé, ma alla consapevolezza del proprio genere e a quanto questa consapevolezza influisce sulle altre sfere della vita. Cosa mi fa rimpiangere casa: il sole si vede in tutto un paio di volte al mese. Fa giorno tardi e il cielo è quasi sempre coperto. Nevica quando le temperature sono alte (sullo zero) ma poi si ghiaccia tutto quando scendono a meno 20, il ché significa che sotto la fanghiglia sui marciapiedi ci sono lastre di ghiaccio infinite. Il cibo fresco e genuino è difficile da trovare, soprattutto è difficile trovarlo a chilometro zero. L’ecologia non esiste. Né i ritmi lenti ai quali io sono abituata. Mosca è futurista, da questo punto di vista. Perfino i rapporti umani sono veloci.
L. V.: Se in Italia ci fosse il lavoro per cui hai studiato, saresti mai partita per lavorare a Mosca? Chiariamo che non si tratta qui di un viaggio di un mese per capire una cultura diversa e perfezionare una lingua straniera: qui parliamo di un anno intero di Russia, di mesi di temperature sotto zero che Mercato San Severino non raggiungerebbe nemmeno se il Vesuvio esplodendo coprisse di una nuvola di lapilli e ceneri per cinque anni tutta la Campania, e soprattutto di buio e di sole che appena sfiorato l’orizzonte, vi scompare rapidamente al di sotto.
S. V.:Sarei partita comunque, anche se in Italia ci fosse stato il lavoro per cui ho studiato, perché desideravo da anni di venire a Mosca e durante i miei tre mesi di prova ho avuto la sensazione di appartenere a questo posto. Che poi in Italia non sarei mai riuscita con tanta rapidità a fare questo stesso lavoro riuscendo ad essere autonoma economicamente, è un’altra storia, e ovviamente mi dispiace che al mio desiderio di viaggiare si accompagni la consapevolezza di non avere molta scelta. Ma sono comunque fortunata, perché non mi sento qui come un’esiliata, ma come un’esploratrice.
L. V.: Passiamo a chi invece ha scelto di restare: Raffaele Bamonte, vicedirettore del Centro Studi Giovanni Verga, giovane laureato in Lettere e specializzato in Filologia. Nel clima di generale sconforto e disillusione da parte dei laureati soprattutto delle discipline umanistiche, tu hai creduto in un progetto e lo stai portando avanti da anni. Come è nata l’idea e quali sono state le difficoltà incontrate?
R. B.: Innanzitutto devo ringraziare il Direttore del Centro studi Giovanni Verga Antonio Caiafa che ha dato vita da qualche anno ormai ad una realtà molto variegata e ben strutturata. Collaboro qui dal 2009 e devo dire che rispetto a molte altre realtà imprenditoriali delle nostre zone, il Centro Studi è un ambiente molto innovativo e stimolante. Difficoltà ce ne sono, sarebbe stupido dire il contrario, ma è anche vero che grazie al ventaglio di servizi offerti riusciamo ad abbracciare un’utenza molto vasta: dal cameriere a cui serve l’ex libretto sanitario, allo studente che deve conseguire la Patente europea del computer, a tutti i lavoratori che devono seguire i corsi di Sicurezza come stabilito dal D.Lgs 81/2008 ecc.; questo solo per citare alcune delle nostre attività.
L. V.: Ti pesa lavorare in piccole realtà del sud d’Italia, tanto bistrattato e considerato poco sviluppato? Le vostre due sedi sono a Teggiano e Roccadaspide. Da una parte due piccoli paesi, dall’altra però è stato possibile per dei giovani creare delle realtà come quella del vostro Centro, che non esistevano ancora sul territorio. Spiegaci come il tuo lavoro ti permette di superare questa contraddizione.
R. B.: Non è affatto una contraddizione, a me piace molto lavorare qui. Molti ragazzi che son dovuti andare via di qua lamentano proprio la lontananza dai propri “luoghi” e le difficoltà economiche a cui devono andare incontro per “abitarli” . Ho la possibilità e la fortuna di confrontarmi ogni giorno in due grandi realtà: parlo del Cilento e del Vallo di Diano. Roccadaspide e Teggiano riescono ad offrire molto, il problema credo io sia a livello imprenditoriale, forse scarsa conoscenza delle possibilità offerte dalle nostre terre, tra l’altro bellissime.
L. V.: Vedi il tuo futuro in Italia? Nonostante intorno a te, tu come tanti giovani, senta il peso di una quasi imminente catastrofe economica e di una già avvenuta caduta morale, quale spinta ti dà la forza per costruire qui e non andartene altrove? Spiegaci questo tuo lavoro, che credo sia una specie di missione, visto che sei a contatto poi con tanti ragazzi di età scolare soprattutto.
R. B.: Adesso sono qui, e credo in quello che faccio, il futuro è sempre incerto, ma bisogna anche credere in qualcosa e lottare se c’è bisogno di conquistarla. Queste parole le ricordo sempre ai ragazzi che incontro ogni giorno al Centro Studi. Si fanno grandi sacrifici, soprattutto in un tempo come il nostro, quindi dobbiamo canalizzare le nostre energie e cercare di crearci degli obiettivi; lo so non è sempre facile questo, ma almeno proviamoci
Una missione dici? Non so se posso definirla così, a volte lo è, soprattutto quando mi occupo di didattica. Quello che è certo, è che mi impegno molto ed investo tutte le mie energie per riuscire al meglio in questo intento.
Tre modi diversi di concepirsi e di pensarsi nel mondo del lavoro e nella società, tre alternative tutte valide e fondamentali nella realtà disgregante e materialista dei nostri anni, ma più di tutto tre esempi: credere in un progetto, andare avanti e non mollare.