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Caparezza ed uno show da vedere almeno una volta nella vita

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Caparezza ed uno show da vedere almeno una volta nella vita

Caparezza ed il suo “Prisoner 709 tour” fanno tappa al Palapartenope di Napoli per l’unica data campana. Ecco le foto e la recensione di una serata a metà strada tra musica e teatro

Quando credi di aver visto tutto, in realtà non hai visto ancora niente. Potrebbe bastare questa semplice frase per descrivere a pieno il “Prisoner 709 tour” di Caparezza che ieri ha fatto tappa, in quella che è stata l’unica data campana, al complesso Palapartenope di Napoli. Come detto la frase sopracitata potrebbe essere utilizzata per la descrizione, ma in realtà non sarebbe sufficiente perchè da qualsiasi angolo si guardi lo show ci si accorgerà sempre di aver dimenticato di citare qualcosa. Ma procediamo con ordine.

Il “Prisoner 709 tour” , che prende il nome dall’omonimo e recente disco di inediti pubblicato dall’artista pugliese lo scorso 15 settembre, dal punto di vista pratico è uno spettacolo suddiviso in due parti, la prima delle quali prevede la trasposizione scenica del nuovo progetto discografico, rappresentato sfruttando a pieno il filo logico che lega i vari brani che lo compongono. La strada battuta, in questo caso, è fatta di pochissime chiacchiere e molta musica usata come strumento per descrivere i vari stadi di malessere, perdizione e rinascita che si evincono dalle storie narrate nell’album e che sembrano essere pensati ad hoc per costituire quasi una specie di appendice all’intero show.

In quest’ottica lo spettatore si trova a muoversi in un vero e proprio tunnel ricco di gallerie e cunicoli secondari, concretizzati in scena dalle esecuzioni dei vari pezzi in scaletta, e dal quale Caparezza esce, seguendo un ipotetico cammino all’interno di un corpo umano che termina in una bocca  gonfiabile posta al centro del palco, solo dopo aver eseguito il brano “Prosopagno Sia!”( messo non a caso a chiusura dell’album e scelto per terminare questo primo set).

Da questo punto in poi l’evergreen “Fuori dal tunnel”, eseguita nel delirio generale ed in un turbinìo di coriandoli, dà avvio alla seconda parte della serata totalmente dedicata ai grandi classici dei vecchi album, ognuno dei quali, a dispetto di quanto accade precedentemente, viene sempre anticipato da un breve discorso motivazionale che dimostra la notevole preparazione culturale oltre che scenica del cantante nativo di Molfetta. Questo concetto è ulteriormente amplificato ed esaltato dalla cura quasi maniacale per i cambi d’abito, continui e sempre attinenti al pezzo inscenato, e per le  scenografie, vera e propria chicca di tutto lo show, che, sommandosi ad un Caparezza costantemente in movimento ed onnipresente in ogni porzione del palco, sono tali da avvicinarlo più al mondo teatrale che a quello melodico.

In quest’ottica nonostante il palco a forma di chiave a primo impatto possa sembrare abbastanza semplice e scarno, perchè costituito da varie scale centrali su cui svetta una passerella in corde abbinata ad un unico ledwall rettangolare, esso improvvisamente diventa sempre un accessorio secondario che fa da sfondo a numerosi oggetti di scena e pannelli perfettamente integrati per raccontare delle vere e proprie storie.

Emblematici in tal senso sono il totem a forma di lavatrice o lo spaventapasseri gigante su sfondo color grano, cui l’artista si rivolge durante l’esecuzione di “Confusianesimo” e “Mica Van Gogh”, oppure la macchinetta della Polizia che lo insegue in passerella per poi ingabbiarlo sulle note de “L’uomo che premette”. E se i  fuochi in stile rock pesante durante l’apertura affidata a “Prisoner 709” o l’ingresso in barella di “Autoipnotica” non dovessero bastare, ci pensano una vera e propria chiave fluttuante, che porta il cantante ad innalzarsi sulla folla, e la trasformazione di tutto il palco in un vero e proprio alveare con tanto di abiti di scena ne “La Fine di Gaia” a farti spalancare gli occhi e dire:“Wow!”.

Ed è proprio questa l’ultima sensazione che ti resta dentro alla fine di tutto e che si somma ad una buona dose di adrenalina mista a stanchezza derivante dall’impossibilità di stare fermi durante tutta la durata di uno show totalmente privo di tempi morti. Diversi fattori cui forse non presti attenzione nell’immediato, ma che a lungo andare ti fanno comprendere a pieno quanto sia veritiera la frase utilizzata per l’apertura di questo testo.

Galleria fotografica a cura di Alfonso Maria Salsano: