Il Teatro Ghirelli sta riservando continue sorprese per questa stagione, proponendo spettacoli interessanti e ricchi di spunti.
Dalla serata inaugurale con Nicoletta Braschi e l’inatteso Roberto Benigni, da Renato Carpentieri all’inedita riproposizione di Eduardo de Filippo di Fausto Russo Alesi del Piccolo di Milano, fino agli sconfinamenti primitivi e post-moderni di Pippo del Bono. Questi nomi, e queste messe in scena, hanno seguito un crescendo all’insegna della sperimentazione e dell’avanguardia che ha trovato il suo apice nello spettacolo ospitato fino a ieri dal titolo ‘Titanic the end’, ideato da Antonio Neiwiller e riallestito da Salvatore Cantalupo. I due traggono la drammaturgia dalla figura del colto e “fuori dagli schemi” scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger. Lo spettacolo è stato interpretato come l’inizio di diverse fini: la fine della società, quella della comunicazione umana, quella della fiducia incontrovertibile per il progresso. Il tutto partendo dalle riflessioni di Adorno sul del Titanic, tramonto della modernità e naufragio della ragione.
Lo spettatore si sente subito immerso in uno spazio che è tutto sconfinatamente palco. Ad attenderlo, nebbia, musica e le luci di Cesare Accetta. Sin dai primi istanti non si va incontro a uno spettacolo, ma a un'”esperienza” artistica: il limite tra attori e pubblico si abbassa, le suggestioni uditive si fanno sempre più vive, i momenti di festa, di tristezza, di angoscia sono veicolati dagli attori al pubblico attravero continue suggestioni sensoriali. Che in scena si articolino suoni di una lingua incomprensibile poco importa: non è forse vero che continuamente parliamo tra noi senza capirci? Ed è vero il contrario, ossia che alcuni sguardi e mimiche possono essere le chiavi giuste per la comunicazione. A dare una spinta importante per la godibilità dell’intera opera è la colonna sonora fatta di nomi “fondamentali” per ogni appassionato che si rispetti: Philip Glass, Weather Report, Don Cherry, Collin Walcott, Nana Vasconcellos, John Cage e Brian Eno, fino al brano finale Mama Rose di Archie Shepp che culla in modo pregevole la nostra retina, la quale sembra dondolare attraverso le apparizioni di luce e ombra che si susseguono sul palco.
Cosa rimane di questo spettacolo non sono e non devono essere le parole, che poi di nessuno spettacolo ricordiamo davvero, ma è l’odore dei mandarini mangiati realmente sulla scena che arriva sino alle ultime file. Ed è anche il fluttuare delle ombre di fantasmi e oggetti sparsi nel fondo dell’oceano: la torcia che dietro la tela illumina gli attori e i loro oggetti inanimati, proiettandoli al pubblico, è una luce che in qualche modo può svegliare, con un’immagine del sogno, le nostre menti dal torpore di una vita fatta di troppe parole che crediamo di comprendere ma che in realtà non hanno alcun significano. E se eventi artistici di questa portata esistono, allora forse… non è la ‘fine’.