Accadde nel… 19 luglio 1992, la strage di via D’Amelio – Questo non è un film, non ci sono attori, e i protagonisti delle vicende muoiono per davvero
C’era una volta (e c’è ancora) lo spirito di uomini che non hanno voluto piegarsi davanti al sopruso, alla violenza dilagante, all’ingiustizia. Uomini che non hanno abbassato la testa, girato lo sguardo, chiuso gli occhi e tappato le orecchie. Il boato di quei 400 kg di tritolo è servito soltanto a scuotere le coscienze, e di certo a non uccidere la giustizia. Quei 400 kg di tritolo uccisero Giovanni Falcone, ma diedero vita allo spirito combattivo di una regione non più assoggettata alla paura e al ricatto.
Così a distanza di pochi giorni, altri uomini dello Stato si mossero da tutt’Italia per dare maggiore vigore alla lotta al crimine organizzato in Sicilia.
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Gli agenti della Polizia di Stato Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, si strinsero attorno a colui che aveva raccolto la pesante eredità di simbolo della lotta alla mafia, Paolo Borsellino. Con lui si trovarono a condividere quello stesso tragico destino che aveva toccato appena due mesi prima Giovanni Falcone, sua moglie e gli uomini della sua scorta.
Paolo Borsellino, per aver sfidato Cosa Nostra, fu assassinato il 19 luglio 1992 a Palermo, in via D’Amelio, insieme agli uomini della sua scorta: un autobomba parcheggiata nei pressi del cancello dell’abitazione della madre, fu fatta deflagrare durante il suo passaggio, mediante un congegno a distanza. Una bomba talmente potente che avrebbe proiettato i soccorsi, le forze di polizia e i periti intervenuti sul posto, in uno scenario degno di un film di guerra.
Ma lui sapeva già che l’avrebbero ucciso. E sapeva già “chi” l’avrebbe ucciso:
“Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri”.
Ovviamente non poteva che riferirsi a quella parte dello “Stato”, indegno di portare tale nome, che anni dopo sarebbe risultato essere colluso alla mafia, fino ai livelli verticistici della politica. Chi invece poteva degnarsi del fregio di “uomo dello Stato” furono gli uomini della sua scorta, non di certo obbligati, ma sicuramente onorati di seguirlo nella sua battaglia. Avevano tutti paura, ma nessuno di loro era un vigliacco.
L’assistente capo Agostino Catalano, lasciò due figli. Appena poche settimane prima aveva salvato un bambino che stava per annegare in mare, dinanzi alla spiaggia di Mondello.
L’agente scelto Walter Eddie Cosina era giunto volontariamente a Palermo alcune settimane prima, subito dopo la strage di Capaci, proveniente dalla Questura di Trieste. Non essendo in servizio, il 19 luglio, un collega giunse da Trieste per dargli il cambio. Cosina però lasciò riposare il collega e decise di prendere servizio al suo posto, segnando così il suo destino.
L’agente Claudio Traina era sposato e padre di un bimbo in tenera età.
L’agente Emanuela Loi, lasciò i genitori, una sorella, un fratello, il fidanzato. Fu la prima agente donna della Polizia di Stato a venire uccisa in servizio.
L’Agente Vincenzo Li Muli lasciò i genitori e i fratelli.
Nella strage di Via D’Amelio la Polizia di Stato subì le perdite più pesanti dal 1945.
“Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”, diceva Paolo Borsellino, ma il dott. Borsellino non è morto. È più vivo che mai, a distanza di oltre 20 anni il suo spirito fa tremare i responsabili che gli hanno strappato la terra da sotto i suoi piedi. Loro sono ancora vivi, attivi in posti che non meritano.
Sperano che col tempo l’Italia possa dimenticare il sangue versato. Sperano in qualcosa che non accadrà mai.